L'INPS: GLI IMMIGRATI TENGONO IN PIEDI IL SISTEMA PREVIDENZIALE, SVOLGONO I LAVORI PIU' UMILI E CON LE PAGHE PIU' BASSE, SONO PIU' ESPOSTI ALLA CRISI

15 Giu 2011

 

L’INPS: GLI IMMIGRATI TENGONO IN PIEDI IL SISTEMA PREVIDENZIALE, SVOLGONO I LAVORI PIU’ UMILI E CON LE PAGHE PIU’ BASSE, SONO PIU’ ESPOSTI ALLA CRISI

“Pur essendo vero che l’Italia spende più della media europea per le prestazioni di vecchiaia, cui dedica oltre la metà delle risorse per la protezione sociale, ciò non avviene certamente per gli immigrati: al loro ingente versamento di contributi previdenziali (circa 7,5 miliardi di euro nel 2008) corrisponde una scarsa rappresentazione nel gruppo dei beneficiari di prestazioni pensionistiche: all’inizio del 2010 sono stimabili in appena 110 mila i pensionati stranieri e quelli entrati in età pensionabile nel corso dell’anno incidono appena per il 2,2% sul totale dei residenti nella stessa condizione. Considerata l’età media nettamente più bassa di quella degli italiani (31,1 anni contro 43,5), questo andamento è destinato a durare per diversi anni, con innegabili benefici per l’intero sistema previdenziale”. il IV Rapporto sui lavoratori di origine immigrata negli archivi INPS, curato dai redattori del Centro Studi e Ricerche Idos-Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, in collaborazione con l’Istituto, conferma che gli immigrati danno all’Inps più di quanto ricevono. L’ammontare dei loro contributi previdenziali è pari al 13% del totale e sono in 2,7 milioni a versarli. Non solo i lavoratori immigrati contribuiscono alla tenuta del sistema previdenziale, ma senza di loro interi settori produttivi non potrebbero sopravvivere. Secondo gli archivi Inps sono così ripartiti: lavoratori dipendenti da aziende (1.722.634, 63,2%); lavoratori domestici (479.133, 17,6%); operai agricoli (231.663, 8,5%); lavoratori autonomi (293.824, 10,8%)1. Quindi, ogni 10 lavoratori immigrati 9 sono attivi nel mondo del lavoro dipendente (con riferimento alle aziende, agli imprenditori agricoli e alle famiglie: 89,2%) e 1 svolge un’attività autonoma (10,8%). In generale, quasi la metà degli immigrati dipendenti (47,3%) è concentrata in soli tre comparti (commercio, edilizia e metalmeccanica), che purtroppo sono stati quelli maggiormente colpiti dalla crisi rispetto al lavoro presso le famiglie, nel settore turistico e in agricoltura. È prevalente in misura netta il settore commerciale (716.944 addetti, il 41,6% del totale), mentre in edilizia (335.105 iscritti, 19,5%) si riscontra la massima incidenza dei lavoratori immigrati sul totale degli addetti (22,6%, dieci punti percentuali in più del commercio: 12,0%).

Anche questo rapporto rimarca la tendenziale canalizzazione dei migranti nelle posizioni più marginali, poste alla base della piramide occupazionale, vi è anche il fatto che quasi 9 immigrati dipendenti di un’azienda su 10 siano inquadrati come operai (81,9%) o apprendisti (7,4%), mentre tra l’insieme degli assicurati in posizioni analoghe lo stesso rapporto è di 6 ogni 10 (60,7%). In tal modo, ha un’origine immigrata più di 1 operaio ogni 6 (17,6%) e quasi 1 apprendista ogni 7 (13,8%), a fronte dell’incidenza media di 1 ogni 9 (11,7%). Inoltre, a conferma di come anche nel gruppo degli operai le posizioni occupate dai migranti siano quelle più svantaggiate (in termini di mansioni, come di esposizione alla discontinuità) è il fatto che gli operai immigrati percepiscono una retribuzione lorda media annua ridotta di quasi un quarto (-24,2%) rispetto all’insieme degli assicurati con la medesima qualifica (11.271 euro vs 14.871, -3.600 euro).

I lavoratori autonomi sono 293.824, un decimo dei migranti assicurati all’INPS (10,8%), con una ripartizione disuguale tra le diverse categorie, che attesta, tra l’altro, le maggiori difficoltà che si incontrano nell’avviare un’attività nel settore agricolo, per l’elevato capitale iniziale necessario: artigiani 52,1% (153.006), commercianti 46,3% (136.014), autonomi in agricoltura 1,6% (4.804). Il numero di lavoratori autonomi immigrati, ancora relativamente contenuto, è in costante aumento. La scelta del lavoro autonomo assume sostanzialmente due valenze, una funzionale e l’altra emancipatoria. Da una parte si configura spesso come una strategia di auto-impiego, che assicura la stabilità dell’occupazione anche in un periodo di crisi e, di conseguenza, offre la garanzia della regolarità del soggiorno. Dall’altra, si fa espressione della volontà di riscatto dai ruoli subalterni in cui i migranti restano spesso confinati e, quindi, dell’aspirazione a un inserimento più coerente con le proprie competenze, pregresse o favorita da quei datori di lavori che, per evitare gli oneri fiscali e previdenziali (e le notevoli incombenze burocratiche), non sono propensi alla regolare assunzione, per cui il lavoro autonomo degli immigrati va considerato, seppure parzialmente, una sorta di “maschera” di un lavoro subordinato discontinuo, specie in edilizia.

Il comparto della collaborazione familiare, una peculiare forma di lavoro dipendente, nel 2007 ha occupato 618.032 addetti, per oltre i tre quarti immigrati (479.133, 77,5%); una quota ben superiore a quella, già rilevante, che si registrava nel 1998 (46,3%). Si tratta di un ambito in cui si concentra oltre un sesto (17,6%) di tutti gli immigrati assicurati dall’INPS, a riprova della forte domanda interna.

Il settore agricolo è tra quelli di maggiore rilevanza per quanto riguarda l’occupazione degli immigrati, nonché un settore cruciale per il sistema economico-produttivo nazionale e che sembra ben resistere davanti agli effetti della crisi. L’Italia, terzo paese produttore agricolo nell’Unione Europea, incide per il 15,1% sul mercato agricolo europeo dopo la Francia e la Germania. L’agricoltura incide sul Pil italiano per l’1,7% (contro l’1,4% della Francia e lo 0,6% della Germania) ma, secondo stime, l’incidenza arriva all’8,4% se si considera l’intera filiera (valore da raddoppiare tenendo conto anche dell’indotto), al cui interno sussiste la seguente ripartizione: 20% produzione agricola, 30% trasformazione e 50% distribuzione. La canalizzazione degli immigrati verso il settore agricolo è andata crescendo negli ultimi anni, in particolare per quanto riguarda gli operai agricoli, in larga maggioranza a tempo determinato: erano 84.770 nel 2000, ovvero neanche un decimo del totale (9,1%), nel 2004 erano quasi raddoppiati (145.746), arrivando a rappresentare un settimo del totale (14,9%), e nel 2007, con 231.663 assicurati (per il 68,8% uomini), la loro incidenza ha superato un quinto (22,4%; 2000-2007: +173,3%).

La crisi si è fatta sentire in tutta Europa anche per i lavoratori stranieri, che hanno sperimentato un significativo e rapido peggioramento delle condizioni occupazionali (diminuzione del tasso di occupazione e aumento delle persone disoccupate e in cerca d’impiego). In Italia, nel 2009, il tasso di disoccupazione è passato dal 9,8% all’11,2% (per gli italiani dal 6,5% al 7,5%). Il tasso di occupazione è sceso dal 77,7% al 64,5% (per gli italiani dal 67,9% al 56,9%). A risentire della crisi sono stati maggiormente gli immigrati inseriti nel settore industriale, soprattutto uomini e nelle

regioni settentrionali, e meno quelli addetti ai servizi: peraltro, anche nell’industria, il fatto di essere addetti alle mansioni più umili e meno gradite agli italiani è servito da temperamento.

Ad aver sofferto maggiormente degli effetti della contrazione della base occupazionale sono state le collettività più concentrate nel settore industriale (edilizia inclusa) e nelle regioni del Nord, come i marocchini e – in misura minore – gli albanesi, tra i quali il calo dell’occupazione maschile, concentrata nell’edilizia, è stata temperata dal moderato sviluppo di quella femminile, convogliata nel settore domestico e di cura alla persona. L’andamento più soddisfacente ha riguardato invece le collettività con un maggior numero di donne occupate, in particolare nell’assistenza alle famiglie

(un comparto che ben resiste alla fase di recessione), come quella ucraina o quella filippina. La crisi, in ogni caso, non ha interrotto del tutto la crescita dei lavoratori immigrati, ma l’ha frenata

La crisi, d’altra parte, ha evidenziato la maggiore precarietà degli immigrati in caso di disoccupazione. Nei nuclei familiari composti interamente da cittadini stranieri (con almeno un componente in età da lavoro), il 63% ha un solo un occupato rispetto al 44% delle famiglie italiane.

I dati INPS sulle retribuzioni percepite nel 2007 mostrano come mentre per la generalità dei lavoratori dipendenti da un’azienda la retribuzione media è stata di 19.213 euro lordi annui, quelli di origine immigrata ne hanno percepiti mediamente 12.121 (- 36,9%, uno scarto che sale al 39,9% rispetto ai soli nati in Italia). Per gli immigrati l’aumento della retribuzione durante l’intera carriera lavorativa è dimezzato rispetto a quanto avviene per i lavoratori nel loro complesso e, a 60 anni, guadagnano mediamente 16.971 euro lordi annui, un livello pressoché uguale a quello che un dipendente d’azienda generico guadagna prima dei 40 anni. Per le donne il confronto è ancora più sfavorevole e alla fine della carriera esse guadagnano poco più di quanto in media un dipendente d’azienda generico percepisce prima di aver compiuto 30 anni (13mila euro lordi annui). La condizione retributiva delle donne straniere è poi ancor più svantaggiata, se si considera la loro massiccia canalizzazione nel settore domestico, ovvero l’ambito di lavoro segnato dai livelli salariali annui più bassi insieme al lavoro agricolo stagionale.

 IL RAPPORTO INPS

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