12 Nov 2012
di Mirto Bassoli*
La ricerca svolta da Matteo Rinaldini, Università di Modena e Reggio Emilia, per conto dell’Ires Emilia Romagna, sul rapporto tra immigrati e sindacato, ci apre scenari e chiavi di lettura nuove, che possono aiutarci a meglio indagare la realtà del fenomeno migratorio nel nostro paese.
La ricerca, svolta per conto di quattro categorie della Cgil (metalmeccanici, alimentaristi, edili e commercio), completa un precedente lavoro d’indagine svolto sempre per conto dell’Ires, finalizzato a indagare il rapporto tra immigrati e sindacato: “Uscire da Babele”.
Già l’obiettivo della ricerca propone un approccio di estremo interesse: “Ricostruire e conoscere il profilo di un soggetto (il Delegato immigrato) nuovo all’interno del sindacato; approfondire la conoscenza del rapporto che gli immigrati hanno con il sindacato, sfruttando la doppia prospettiva dei delegati e assumendoli come osservatori privilegiati”.
Emerge da subito un quadro, per certi versi, inaspettato: delegati in prevalenza giovani, diplomati o laureati, in grado di parlare numerose lingue, provenienti dal ceto medio urbano. A condurci verso una lettura distorta spesso è il modo nel quale molte di queste persone giungono nel nostro paese, e il fatto, confermato anche dai comportamenti dichiarati dai delegati intervistati nella ricerca, che prima di rientrare nella sfera della regolarità, la grande maggioranza di loro passi mesi nella condizione di clandestinità, accettando di svolgere le attività più umili, subendo condizioni di sfruttamento che tante volte ledono la loro dignità di persone.
I delegati intervistati sono giunti nel nostro paese o in Europa inseguendo un sogno, che è rappresentato dalla sintesi di desiderio di libertà e riscatto economico. Ciò che trovano qui, purtroppo, e come ben sappiamo, non sempre corrisponde a quelle legittime attese.
Il percorso d’inserimento nel lavoro e nella società è normalmente assai lungo e tribolato, ma alla fine, quando si concretizzano finalmente condizioni ritenute accettabili, la volontà è normalmente quella di mettere stabili radici nei luoghi nei quali ci si è insediati. Lo confermano le dinamiche concernenti i ricongiungimenti familiari, alla composizione degli stessi nuclei famigliari, ma anche il fatto che il 75% del campione intervistato è nella provincia nella quale risiede da più di dodici anni, e che quasi la metà possiede una casa in proprietà.
Non si tratta di lavoratori che incontrano per la prima volta, nel paese di arrivo, l’esperienza sindacale o quella politica. Molti di loro -non a caso quella descrizione delle loro origini che prima richiamavo- hanno avuto significative esperienze nei paesi d’origine. E’ perciò da quel bagaglio di esperienza che muovono i loro passi verso il processo di sindacalizzazione, quando avviene, nel nostro paese.
Qui incontrano il sindacato in due luoghi: l’azienda o il cantiere, naturalmente quando il rapporto di lavoro diventa regolare (il ruolo delle Categorie sindacali e delle Rsu risulta, da questo punto di vista, fondamentale); i Centri Lavoratori Stranieri della Cgil (o, qualche volta, anche le analoghe strutture di tutela-assistenza di altre organizzazioni sindacali). Sono queste ultime le strutture che svolgono la funzione più rilevante, e alle quali gli stessi immigrati riconoscono un ruolo essenziale nel processo d’integrazione delle lavoratrici e dei lavoratori che provengono da paesi stranieri.
In generale la sindacalizzazione appare come parte costitutiva dell’esperienza migratoria ed emerge un ruolo delle organizzazioni sindacali, in particolare della Cgil, davvero importante nell’avere agito come protagonista del processo d’integrazione.
Lo conferma anche il fatto che il movimento sindacale nel nostro paese ha ormai raccolto tra le proprie fila una quantità considerevole di migranti, fino a osservare una mutazione radicale della propria composizione. La Cgil della nostra regione, per fare un esempio, ha oramai raggiunto la soglia di un iscritto di origine straniera ogni quattro tra i lavoratori attivi (escludendo dal computo i pensionati) e, nella dinamica riguardante le nuove iscrizioni, il dato riferito ai migranti indica una capacità di sindacalizzazione più elevata rispetto al dato corrispondente ai nativi.
Un dato, quello concernente la crescita dell’iscrizione al sindacato, che segue ciò che è avvenuto sul piano più generale, nella composizione della struttura sociale: Il fenomeno migratorio in Italia ha avuto un’impennata, nel breve volgere di un decennio, di portata assai rilevante, passando da 1,5 milioni d’immigrati a quasi 5 milioni, triplicando da percentuale, oggi attestata all’8%, rispetto al 2,7% d’inizio periodo. In Emilia Romagna, nello stesso arco temporale, siamo passati da poco più del 3% all’11,3%.
Il sindacato quindi – e la Cgil in particolare-, per tornare ai contenuti della ricerca, ha svolto una funzione di “agente d’integrazione”, come tantissimi immigrati ci riconoscono. I lavoratori immigrati hanno trovato in essa un importante interlocutore: un sostegno soprattutto nel ruolo svolto dalle Camere del Lavoro, attraverso i Centri Lavoratori Stranieri, essenziale nel fornire loro assistenza e tutela e nella funzione delle Categorie sindacali; in particolare nei luoghi di lavoro, nell’intreccio tra l’attività di tipo contrattuale e il ruolo svolto dalle Rsu.
Se non ci fosse stato questo, la condizione di tantissime/i immigrate/i, entrati in vario modo nel nostro paese, sarebbe stata assai peggiore. Sindacato e associazionismo, laico e cattolico, hanno rappresentato gli unici interlocutori dei quali queste persone si potevano fidare, di fronte ad uno Stato che sostanzialmente esprimeva una volontà di avversione verso il fenomeno migratorio. I migranti, spesso, hanno anche trovato nel sindacato un luogo di partecipazione, laddove questo gli era totalmente precluso in ogni altro ambito civile e politico.
Ciò detto, la ricerca mette chiaramente in evidenza i problemi che, sempre più esplicitamente, si manifestano nella dinamica relativa al rapporto tra migranti e sindacato e, soprattutto, quella relativa al rapporto tra i delegati e organizzazioni coma la nostra.
Le due questioni che emergono al di sopra delle altre sono:
In primo luogo, la tendenza a riconoscere ai delegati di origine straniera una sorta di “rappresentanza selettiva”, mentre gli stessi intervistati evidenziano una loro attesa di carattere opposto (“vogliamo essere i delegati di tutti, non solo degli immigrati; e vorremmo che gli altri delegati, quelli non stranieri, si occupassero un po’ di più anche delle problematiche specifiche nostre”);
La seconda questione riguarda il numero assai esiguo di dirigenti di origine straniera che crescono all’interno della struttura del sindacato, sia nei servizi, che nella struttura di rappresentanza; ma, ancor prima, è il dato che si riferisce al numero di delegati stranieri tra le RSU a evidenziare uno squilibrio enorme (non emerge dalla ricerca, ma da una recente analisi fatta dalla Cgil dell’Emilia R.: siamo al 3,3% di delegati stranieri a fronte dei dati sull’appartenenza alla Cgil che prima richiamavo).
Quest’ultima questione pone, con assoluta evidenza, un problema di “cittadinanza incompiuta” anche dentro l’organizzazione sindacale. Questione che, anche a partire dagli esiti di questa ricerca, sarà oggetto della discussione nelle prossime Conferenze sull’immigrazione che la Cgil svolgerà nelle prossime settimane. Se vogliamo cioè riprendere una traiettoria di affermazione dei diritti e del principio di uguaglianza, con riferimento alla condizione dei migranti, dobbiamo consentire loro di essere protagonisti del proprio destino. Oggi questo “protagonismo” gli è, in vario modo, precluso, e costringe loro a delegare ad altri le decisioni che incidono sulla propria condizione.
Derivano quindi da questi elementi i punti di criticità che i delegati migranti pongono all’organizzazione sindacale. Nella ricerca sono individuati, dagli stessi delegati, come “criticità e ambiguità attuali e future del sindacato”, in rapporto con il problema oggetto di approfondimento:
La mancanza di una strategia di estensione della cittadinanza, in modo particolare per il rilievo che questo problema ha sul piano dell’iniziativa per conseguire il pieno riconoscimento dei diritti civili e politici (questo ci porta alle proposte di legge che anche la Cgil ha sostenuto nell’ambito della campagna “L’Italia sono anch’io”, certamente finalizzate ad affrontare questa inaccettabile condizione);
La difficoltà a coinvolgere la componente irregolare del fenomeno migratorio;
Il reclutamento frenato in ruoli di responsabilità dentro l’organizzazione sindacale e, dunque, la necessità che il movimento sindacale muti i propri assetti e le politiche di crescita dei propri quadri in funzione del cambiamento che, nel breve volgere di dieci anni, si è determinato;
La formazione per i migranti, ma anche per gli italiani; rimanendo questa della formazione una questione assolutamente strategica per l’azione del sindacato
Su questi temi dalla ricerca vengono spunti importanti, che la Cgil e il movimento sindacale farebbero bene a raccogliere, assumendoli come elementi d’indirizzo della propria iniziativa su una materia assolutamente prioritaria, qual è oggi quella relativa all’immigrazione straniera. Da questo punto di vista, recuperando un ritardo che va rapidamente colmato.