GLOBALIZZAZIONE E NUOVE SCHIAVITÙ

29 Gen 2013

 

di Vincenzo Intermite

L’approssimazione e la superficialità con la quale, frequentemente, uomini comuni e politici si accostano al fenomeno migratorio dipende probabilmente da una sostanziale sottovalutazione, più o meno intenzionale, delle cause e della drammaticità di tale fenomeno. La corta vista che tradizionalmente ha caratterizzato l’occidente nei rapporti col resto del mondo, aggiunta ad un mai soppresso etnocentrismo, non consente di collocare la scelta, apparentemente privata, di un individuo di abbandonare la propria terra in cerca d migliori condizioni di vita, in un contesto economico e sociale di tipo planetario che ne chiarisca le ragioni profonde. Illuminante, a questo proposito, è lo studio di Kevin Bales, I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale, edito da Feltrinelli nel 2002, che dà un’idea precisa dell’inferno che queste persone si lasciano alle spalle e di quello che li aspetta una volta approdati nel ‘civile Occidente’, soprattutto quando quella scelta non è frutto della propria volontà, ma è indotta attraverso la violenza o l’inganno.

La storia di Iqbal Masih rende benissimo l’idea di quello che è la schiavitù minorile nel Sud del mondo. La vicenda si svolge in Pakistan. Iqbal Masih è un bambino ceduto dalla famiglia, ridotta in miseria, per saldare un debito di 16 dollari al quale non era stata in grado di far fronte. Dopo aver lavorato per diversi padroni, Iqbal giunge nel laboratorio di Hussain che produce tappeti grazie al lavoro incessante di 14 bambine e bambini fra i 10 e i 15 anni anch’essi provenienti da famiglie indebitate, e che vivono e lavorano nella speranza, il più delle volte illusoria, di estinguere il debito e tornare a casa. Le condizioni di lavoro all’interno dello stabilimento sono pessime: si respira polvere fin quasi a soffocare, si soffre la fame e vige un regime di terrore a causa della pratica, frequentemente attuata, di punire i piccoli ribelli rinchiudendoli, anche per giorni, nella cosiddetta ‘tomba’, una cisterna metallica seminterrata. Iqbal si rivela subito sveglio e capace, ma anche ribelle e ciò gli costa punizioni molto severe al limite della sopravvivenza. Viene rinchiuso nella tomba per molti giorni e ne esce vivo solo grazie alla solidarietà dei suoi piccoli compagni che, a rischio della loro incolumità gli portano da mangiare di nascosto. Riportato al suo posto di lavoro, riesce a scappare e, recatosi in città, ha occasione di ascoltare il discorso di un rappresentante del Fronte per la liberazione del lavoro minorile, Eshan Khan. Viene riacciuffato e riportato nel lager, ma dopo pochi giorni scappa nuovamente, riesce a raggiungere Eshan Khan e denuncia tutto permettendo così la chiusura della fabbrica, l’arresto di Hussain e la liberazione dei piccoli compagni di lavoro. In seguito collabora con il Fronte di liberazione portando testimonianza della propria esperienza prima in Svezia e poi a Boston, ma, tornato dall’America, viene assassinato per mano della mafia dei tappeti il 16 aprile 1995.

Questa vicenda è estremamente significativa perché riassume tutti i caratteri della nuova schiavitù nel contesto di globalizzazione dell’economia nel quale tutto avviene secondo l’esclusivo criterio del massimo profitto, cioè in base al principio del liberismo selvaggio, per cui si va ad investire là dove è possibile abbattere i costi di produzione e tenere alti i profitti e quindi dove i lavoratori non sono tutelati dal punto di vista sindacale e non godono, pertanto, di alcuna legislazione sociale: logica ineccepibile sul piano economico, ma aberrante su quello morale, poiché implica una sorta di mercificazione della persona che riduce il lavoratore ad “una merce usa e getta”. Tutto ciò avviene, dunque nel quadro di un neocolonialismo economico che ripristina le relazioni commerciali diseguali tipiche del colonialismo tradizionale senza la necessità dell’occupazione militare Se a tutto ciò si aggiunge l’enorme mole di debito pubblico da cui questi paesi sono oberati, è evidente che questa situazione porta ad un divario sempre maggiore fra Nord e Sud del mondo con tutto ciò che ne consegue: diffusione di fame, malattie e miseria, proliferazione delle guerre civili, instaurazione di regimi di dominio personale da parte di avventurieri e demagoghi che fanno leva sull’esasperazione della popolazione per conquistare il potere politico, massicce migrazioni verso i paesi ricchi, e, infine, fenomeni di riduzione in schiavitù. Questi presentano tratti ben più drammatici e disumani rispetto a quelli tradizionali: 1) la violenza sistematica attraverso cui si ottiene l’obbedienza; 2) la durata relativamente breve in quanto gli schiavisti non hanno alcun interesse per la salute dello schiavo, dal momento che l’offerta di lavoro è ben maggiore della domanda e dunque il prezzo di questa merce è bassissimo; 3) la perdita di controllo della propria vita da parte dello schiavo; 4) l’inesauribilità del debito nei confronti del padrone che così può sfruttare lo schiavo a suo piacimento.

Il fenomeno della schiavitù nel mondo globalizzato non è circoscritto alla sola realtà del terzo mondo; esso è, oggi, il più redditizio business criminale nei paesi occidentali. Nel mondo globalizzato che esaspera sempre più il divario tra paesi poveri e paesi ricchi, il movimento migratorio dai primi ai secondi è inevitabile e facilitato dall’abbattimento delle frontiere tra i mercati: così come gli imprenditori del Nord del mondo spostano massicciamente i loro capitali dove il lavoro costa poco, allo stesso modo i lavoratori del Sud del mondo spostano l’unico capitale che hanno, la forza-lavoro, dove esso può essere meglio utilizzato; dal momento, però, che, da una parte i flussi migratori sono massicci e dall’altra la capacità di accoglienza dei paesi di arrivo non è inesauribile, questi flussi acquisiscono inevitabilmente il carattere della clandestinità, finendo così con l’essere gestiti da organizzazioni criminali che non si fanno scrupolo di spogliare i migranti di quel poco che hanno, per potersi pagare un viaggio non autorizzato dalla legge.

Bales individua due modalità attraverso cui avviene questo flusso migratorio illegale: 1) Smuggling of migrants (contrabbando di migranti): le organizzazioni criminali organizzano viaggi clandestini dietro pagamento destinati a coloro che volontariamente affrontano il viaggio perché in condizione di miseria, in situazione di guerra, ecc.; 2) Trafficking in human beings (tratta degli esseri umani): consiste nella compravendita di esseri umani, donne e bambini soprattutto, da introdurre nei paesi di immigrazione per essere avviati ad attività quali accattonaggio, prostituzione,furto, ecc.,umilianti, faticose e pericolose per le persone assoggettate, ma estremamente fruttuose per i criminali che ne raccolgono tutti i frutti.

I caratteri di questa seconda modalità ne fanno una vera e propria forma di schiavitù: 1) la violenza fisica, psichica e sessuale: si esercita con bastonate, calci, pugni, digiuno forzato, somministrazione di droghe, stupri, prigionia; 2) l’inganno: alle vittime viene promesso un lavoro lucroso e stabile che permetterà loro di tornare a casa in tempi brevi con un buon gruzzoletto; in realtà saranno obbligati a fare ben altro e i loro guadagni saranno trattenuti interamente dai trafficanti; 3) il ricatto: la vittima deve avere comportamenti omertosi per evitare che la vendetta dei trafficanti ricada, oltre che su se stesso, sulla sua famiglia.

La lotta nei confronti di queste nuove forme di schiavitù non può certo essere affidata alla semplice attività legislativa dei singoli governi: essa può conseguire risultati positivi solo attraverso la diffusione del sapere, l’acquisizione di responsabilità da parte di governi e individui che possono, ad esempio rifiutarsi di acquistare merci presumibilmente derivanti da lavoro servile, il radicale cambiamento di prospettiva degli organismi internazionali, che oggi operano esclusivamente in base al calcolo economico: solo così si può sperare di superare un giorno, speriamo non molto lontano, l’aberrazione di una globalizzazione del profitto e dello sfruttamento, per attuare una globalizzazione dei diritti e della solidarietà.

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