di Sara Sfa
Nell’anno accademico 2010-2011 Yvan perse il posto alla Casa dello studente e la borsa di studio, un bel guaio per lui; aveva bisogno di una copertura finanziaria per potersi mantenere e quando un amico di Pavia gli propose di andare nel Salento per la raccolta estiva dei pomodori prima esitò poi si decise e partì per Lecce. Raggiunto il campo di Boncuri trovò davanti a sé uno scenario del tutto inaspettato; uomini denutriti, con le scarpe cucite con lo spago, malvestiti, di cui riusciva a captare tutta la disperazione e provò immenso disagio per il suo vestiario di tendenza rispetto all’ambiente circostante. Ma trovò lo stesso calore dell’Africa, «a Nardò c’era un’altra realtà, di degrado e umiliazione. Settecento, ottocento lavoratori e soli cinque bagni, in fila tre ore per fare una doccia. A trenta km dalla città. Iniziavo il turno alle quattro di mattina, fino alle diciotto».
Il suo compito era riempire i cassoni di pomodorini, «un cassone pesava tra i quattrocento e i cinquecento kg, pagato a cottimo tre euro e cinquanta a cassone». E mentre il suo vicino il primo giorno in un’ora aveva riempito cinque cassoni perché faceva quel mestiere da venti anni, Yvan, che non conosceva la tecnica di raccolta e inibito dallo sguardo vigile del caporale, ne aveva raccolti ben pochi ma presto si velocizzò sorprendendosi di come anche lui si fosse piegato rapidamente alle nuove condizioni di vita per un guadagno giornaliero medio di venticinque euro.
Yvan scoprì un’economia sommersa gestita dai caporali, «lì le assunzioni si facevano tramite il caporale che esigeva dai lavoratori i documenti originali, non le fotocopie, e solo dopo capimmo il motivo». Le condizioni di vita nel campo era molto dure, diverse da quelle che aveva conosciuto: «mi ritrovai costretto a dormire per terra, io che dormivo in una residenza universitaria». Boncuri era un luogo di disperazione e povertà che svelava scenari e situazioni surreali, come il furto del materasso: «comprai un materasso da un mercante, i materassi al termine della stagione di raccolta venivano ritirati dai venditori e rivenduti, sempre gli stessi, l’anno seguente ai nuovi braccianti» e Yvan ne venne derubato il giorno successivo e proprio da colui che glielo aveva venduto.
La vita nel campo era gestita secondo le regole volute dal caporale e che prevedevano che tutto venisse corrisposto a lui: Yvan e i suoi compagni pagavano cinque euro il caporale per il trasporto, peraltro stipati come animali in un furgone, non potevano raggiungere il campo con mezzi propri in quanto vietato, non c’erano bar intorno, era vietato portarsi da mangiare, il cibo doveva essere comprato dal caporale. Capitava che qualcuno si sentisse male lavorando a quaranta gradi e il caporale chiedeva venti euro per trasportare il bracciante al pronto soccorso. «Il panino costava tre euro e cinquanta, cinque il trasporto, alla fine della paga giornaliera non restavano che quindici euro». La necessità di risparmiare spingeva alcuni braccianti a dividere un pasto in due e la fame animava le tensioni etniche e il pregiudizio tra i raccoglitori, come quello dei subsahariani verso i maghrebini convinti di essere discriminati.
La rivolta dei raccoglitori scoppiò quando il proprietario del campo decise che i pomodori dovessero essere raccolti non a grappolo come prima ma staccati uno ad uno per quattro euro a cassone, un lavoro molto faticoso e lungo che avrebbe abbassato drasticamente la resa oraria e quindi il salario dei lavoratori. «Era una cifra ridicola» precisa Yvan, «a fronte dei guadagni da migliaia di euro giornalieri del caporale per vessare i raccoglitori». Il malumore si diffuse, i braccianti rigettarono la proposta dei quattro euro chiedendone sei a cassone. Davanti al diniego del caporale Yvan, i ghanesi e alcuni compagni sudanesi incrociarono le braccia e alle dieci fecero ritorno al campo di Boncuri. E mentre si chiedevano se Boncuri fosse davvero Italia e non piuttosto Africa si attivarono per stampare volantini e organizzare un blocco stradale sulla Lecce-Nardò e anche in una assolata giornata d’estate trovarono persone disposte ad ascoltarli lungo la strada prima di fare ritorno al campo il giorno seguente ed informare anche gli altri braccianti: «eravamo africani diversi ma uniti nella richiesta di diritti», quanto alle difficoltà legate alla molteplicità delle lingue parlate, furono nominati dei rappresentanti di ogni comunità. I braccianti chiedevano di poter trattare direttamente con i proprietari dei terreni senza l’intermediazione dei caporali e un salario minimo di sei euro. Fu Yvan a parlarne al megafono davanti all’assemblea serale al campo. Per dieci giorni organizzarono dei picchietti notturni collocando delle grosse pietre all’ingresso per bloccare l’accesso ai caporali. Arrivarono minacce verso i rivoltosi, e Yvan fu anche picchiato dai lavoratori contrari allo protesta. Dopo due giorni gli aderenti allo sciopero erano il 95% dei braccianti e i caporali iniziarono ad avere paura. Il blocco durò un mese e mezzo, «nelle due settimane in cui ci furono le maggiori adesioni vennero i datori di lavoro, prima mai conosciuti, a supplicarci di continuare a raccogliere i pomodori e in quel momento capimmo la nostra forza, quella di riuscire a bloccare la vendita dei pomodori per due settimane con ripercussioni sui rifornimenti agricoli in tutto il Salento nonostante i tentativi dei caporali di dividerci».
«Questo era un sistema che riguardava gli stranieri dagli anni novanta, di cui tutti erano a conoscenza», spiega Yvan, «molti avevano perso la vita per ribellarsi senza che questi fatti venissero denunciati o puniti perché i datori di lavoro gestivano il potere economico e anche quello politico». Dei risultati ci sono stati, l’impegno di Yvan, dei suoi compagni di lotta e dei sostenitori ha portato ad esiti concreti: «la magistratura di Lecce qualche mese fa ha disposto l’arresto di alcuni imprenditori e caporali», inoltre «con l’aiuto della società civile e della Flai Cgil abbiamo ottenuto la legge contro il caporalato, legge fortemente voluta dalla sinistra con la convergenza di alcuni politici di destra».
Inoltre è stata istituita dalla regione Puglia una lista di prenotazione per i braccianti interessati al lavoro di raccolta. Yvan è intenzionato a continuare questa lotta verso la legalità e lo sta facendo collaborando con la Flai Cgil di Roma «anche se non c’è intesa con i miei genitori perché hanno paura, non condividono quello che sto facendo perché mi hanno mandato qui per un obiettivo ben preciso, studiare».
Secondo Yvan la lotta deve prendere le mosse dal basso, partire dai lavoratori nei luoghi stessi di lavoro. «Esistono molte associazioni che fanno assistenza distribuendo pane, latte, impegno ammirevole ma bisogna rivendicare i diritti, rivendicando il giusto infatti, come un contratto di lavoro regolamentato, non ci sarebbe neanche bisogno dell’assistenza perché i braccianti riuscirebbero a pagarsi la casa da soli e a mantenersi». Ciò che più lo turba è che in Africa c’è la povertà ma c’è la dignità, «invece qui la povertà toglie la dignità, è un sistema che va oltre lo sfruttamento, si tratta di riduzione in schiavitù» e non condivide l’impianto normativo vigente che lega la permanenza di uno straniero alla durata del suo contratto.
Secondo Yvan ci sono delle priorità, «la cosa fondamentale è l’educazione, la conoscenza», infatti i lavoratori a Nardò non sapevano neanche dell’esistenza di un contratto di lavoro. A suo avviso lo sfruttamento è agevolato non solo dalla scarsa conoscenza ma anche dall’isolamento, nel suo caso dal fatto che i centri di accoglienza fossero stati costruiti in posti isolati per cui si rendeva necessario il riferimento al caporale, per il fatto non ci fossero controlli e che la popolazione, lontana dai centri di accoglienza, fosse tenuta all’oscuro della situazione.
Tante persone hanno condiviso il sogno di Yvan partecipandone in misura diversa e inevitabilmente il suo incontra e si specchia nel mio, nei nostri, più modesti, ed è strano come i sogni delle persone finiscano per ricomprendersi l’uno nell’altro, come lanterne cinesi dentro un pallone aerostatico. Qualcuna ce la farà a prendere il volo, altre no ma anche se voleranno basso continueranno a tendere verso l’alto fino a quando ci sarà il calore di una mongolfiera a spingerle.
di Ciro Spagnulo e Mohcine El Arrag
Non solo nel Sud. Il caporalato è una malapianta che alligna in tutta la penisola. Ed è in espansione in tutti i settori produttivi. Ma nel settore agricolo assume dimensioni impressionanti e più pericolosi sono i suoi intrecci con la criminalità organizzata, anche mafiosa. Soprattutto da quando la crisi devasta il paese. Proprio all’intreccio perverso tra criminalità organizzata, caporalato e attività agricole è dedicato il rapporto “Agromafie e Caporalato” voluto dalla Flai Cgil nazionale e curato dall’Osservatorio Placido Ricciotto. “Agrumi, angurie, pomodori le principali colture coinvolte, ma numerose sono le segnalazioni relative all’export di qualità (come nel caso del settore vitivinicolo), alla macellazione clandestina e agli appalti sospetti relativi ai servizi”, afferma il rapporto.
La ricerca, che ha coinvolto 14 regioni e 65 province, ha censito oltre 80 epicentri di rischio, di cui di cui 36 ad alto tasso di sfruttamento lavorativo, da nord a sud. Oltre a Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, il fenomeno esplode in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Veneto e Lazio. Dappertutto si associa “ad altre forme di reato, come ad esempio: gravi sofisticazioni alimentari, truffa e inganno per salari non pagati, contratti di lavoro inevasi, sottrazione e furto dei documenti, gestione della tratta interna e esterna dei flussi di manodopera, riduzione in schiavitù e forme di sfruttamento lesive persino dei più elementari diritti umani”.
I caporali fanno affidamento su un sebatoio di manodopera sommersa che secondo l’Istat è pari al 43 per cento di quella totale, “un esercito di circa 400.000 persone in tutta Italia, di cui circa 100.000 (prevalentemente stranieri) costretti a subire forme di ricatto lavorativo e a vivere in condizioni fatiscenti”.
In termini di evasione contributiva il costo per lo Stato non è inferiore a 420 milioni di euro l’anno, “per non parlare della quota di reddito (circa -50% della retribuzione prevista dai contratti nazionali e provinciali di settore) sottratta dai caporali ai lavoratori, che mediamente percepiscono un salario giornaliero che si attesta tra i 25 euro e i 30 euro, per una media di 10-12 ore di lavoro, tutto nell’illegalità comunque nel sommerso parziale. I caporali, però, impongono anche le proprie tasse giornaliere ai lavoratori: 5 euro per il trasporto, 3,5 euro per il panino e 1,5 euro per ogni bottiglia d’acqua consumata”.
Benché impressionanti, lasciano appena intravvedere la gravità dello sfruttamento lavorativo questi altri dati: “Da gennaio a novembre del 2012 sono 435 sono le persone arrestate per: riduzione in schiavitù (Art. 600), tratta e commercio di schiavi (Art. 601), alienazione e acquisto di schiavi (Art. 602). Dall’entrata in vigore della norma che istituisce il reato di caporalato (art. 603bis del c.p. –
introdotto dal D.L. 13 agosto 2011, n. 138) le persone denunciate o arrestate sono solo 42. La metà degli arresti al centro-nord”.
Sono 27 i clan che si occupano attivamente di business legati alle ecomafie, alle agromafie e al consumo del territorio dovuto all’abusivismo edilizio e sversamento illegale dei rifiuti per un giro d’affari che si aggira tra i 12 e i 17 miliardi euro l’anno, circa il 10% dei guadagni della criminalità mafiosa.
Sono l’8% le aziende confiscate: ” Un dato che potrebbe ingannare, visto che i beni aziendale di maggiore valore sottratti alla criminalità sono proprio le aziende del settore agroalimentare”.
Le principali attività illecite delle mafie in relazione al settore agroalimentare sono le estorsioni, l’usura a danno degli imprenditori, i furti, le sofisticazioni alimentari, le infiltrazione nella gestione dei consorzi per condizionare il mercato e falsare la concorrenza, ma anche la gestione dei mercati generali, del trasporto e della logistica in tutta la filiera, dell’export dei prodotti di qualità commercializzati in tutto il mondo. Purtroppo, però, ci sono anche quelli di pessima qualità nel mirino della criminalità organizzata; le inchieste e le notizie di cronaca, inoltre, dicono che le mafie sono assai attive nella sofisticazione alimementare (pratiche di scongelamento e sofisticazione del pesce, utilizzo di materiali di scartoper la trasformazione dei prodotti). “La contraffazione alimentare è aumentata del 128% negli ultimi dieci anni, un giro d’affari di circa 60 miliardi quello legato al fenomeno dei prodotti definiti Italian sounding e alla speculazione dell’Italian branding“.
Il rapporto, infine, dà voce a magistrati che indagano, lavoratori che hanno deciso di denunciare i propri sfruttatori e sindacalisti in prima linea e illustra i tanti progetti amessi in campo come “il sindacato di strada”.
LE PROPOSTE DI AMNESTY
di Ciro Spagnulo e Mohcine El Arrag
La sua conclusione è che: “Le autorità italiane dovrebbero modificare le politiche in materia d’immigrazione concentrandosi prima e soprattutto sui diritti dei lavoratori migranti, indipendentemente dal loro status migratorio, garantendo loro un efficace accesso alla giustizia, istituendo meccanismi sicuri e accessibili per i lavoratori migranti che intendono presentare
Più nel dettaglio, così il rapporto sintetizza le misure che per Amnesty vanno adottate al fine di rispettare, proteggere e realizzare il diritto a condizioni di lavoro giuste e favorevoli di tutti i lavoratori migranti, indipendentemente dal loro status migratorio:
1) Rivedere la politica migratoria del paese al fine di tenere maggiormente in conto la realtà del mercato del lavoro e di fornire migliore protezione a tutti i lavoratori migranti. A tale proposito, le autorità italiane dovrebbero incoraggiare il dialogo e valutare le testimonianze di tutte le parti, comprese le organizzazioni della società civile che lavorano direttamente con e per conto dei lavoratori migranti.
3) Mettere in atto la raccomandazione dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di concedere un permesso di soggiorno temporaneo ai lavoratori migranti arrivati in Italia con un visto d’ingresso per lavoro stagionale che non possono convertirlo in permesso di soggiorno.
http://www.flai.it/attachments/article/783/Scheda_Sintesi_Rapporto.pdf
http://www.amnesty.it/italia-rapporto-sullo-sfruttamento-dei-lavoratori-migranti-in-agricoltura
SINTESI RAPPORTO AMNESTY IN ITALIANO