15 Apr 2015
Lo sfruttamento della manodopera in agricoltura è una pratica consolidata in tutta Italia. Spesso diventa vera e propria schiavitù quando è gestito dai caporali. Sono soprattutto le fasce di popolazione che si trovano in una particolare posizione di vulnerabilità economica e sociale a farne le spese, in primis gli stranieri. Oltre che una vergogna per le inaccettabili condizioni di lavoro cui dà luogo, ogni anno costa allo stato centinaia di milioni di euro in termini di evasione fiscale.
A ricordarci ancora una volta la drammatica attualità delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura è un rapporto di Medici per i Diritti Umani (MEDU), “Terraingiusta. Rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri in agricoltura”, realizzato in collaborazione con l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), il Laboratorio di Teoria e Pratica dei Diritti (LTPD) del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre, la Fondazione Charlemagne, la Open Society Foundations, la Fondazione con il Sud e la Fondazione Nando Peretti.
Il rapporto è frutto di testimonianze e dati raccolti nel corso di undici mesi, in cinque territori dell’Italia centrale e meridionale. Seguendo il ciclo delle stagioni agricole i team di MEDU si sono spostati dalla Piana di Gioia Tauro in Calabria, alla Piana del Sele in Campania, dal Vulture Alto Bradano in Basilicata all’Agro Pontino nel Lazio. Nel periodo estivo è stata inoltre monitorata la raccolta del pomodoro nell’area della Capitanata in Puglia.
Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, in tutti i territori la gran parte dei lavoratori stranieri assistiti dal team di MEDU era in possesso di un regolare permesso di soggiorno: da quello per lavoro nelle aree a maggior presenza stanziale come la Campania e il Lazio, per protezione internazionale o motivi umanitari nei contesti con maggior flusso stagionale come la Calabria, oppure ancora con caratteristiche miste in Basilicata.
La maggioranza dei lavoratori incontrati era senza contratto, con punte dell’83% nella Piana di Gioia Tauro e quasi del 90% nell’Agro Pontino.
Nelle situazioni migliori, “il lavoro grigio rappresenta una modalità diffusa e pervasiva, caratterizzata da sottosalario e da irregolarità contributive. In altre parole, la presenza di un contratto non rappresenta affatto per il migrante la garanzia di un equo rapporto di lavoro. In particolare in tutti i contesti i contributi dichiarati sono risultati, nella maggior parte dei casi, nettamente inferiori al numero di giornate lavorative effettivamente svolte così come anche il salario, sia in presenza di contratto sia di lavoro nero, è risultato sensibilmente ridotto – in genere dal 30 al 40% – rispetto ai minimi giornalieri garantiti dal contratto nazionale e dai contratti provinciali di lavoro”
Il caporalato è pratica diffusa. Le condizioni abitative ed igienico-sanitarie sono apparse assai gravi senza alcun sensibile miglioramento rispetto agli anni precedenti nei territori caratterizzati da forti flussi stagionali di braccianti: Piana di Gioia Tauro, Vulture Alto Bradano e Capitanata. “Baraccopoli e casolari fatiscenti rappresentano ancora oggi il drammatico quadro da ‘crisi umanitaria’ “.
Dal punto di vista sanitario, le principali patologie rilevate sono risultate essere in molti casi correlate alle dure condizioni di lavoro nei campi e alle critiche situazioni di precarietà sociale, abitativa e igienico-sanitaria.
Di fronte a un fenomeno di sfruttamento di così ampie proporzioni, le risposte delle istituzioni territoriali e nazionali sono state in questi anni del tutto insufficienti, afferma Medu. Del resto, se alcuni contesti appaiono impermeabili a ogni trasformazione, in altri territori qualcosa sembra cambiare. Nel corso della scorsa stagione, i governi regionali di Puglia e Basilicata hanno avviato dei piani organici con il preciso obiettivo di migliorare le condizioni lavorative e abitative dei migranti impiegati in agricoltura. Se da un lato, però, le strategie messe in campo dalle due Task Force create ad hoc hanno avuto il merito di affrontare il problema in tutta la sua complessità, tenendo conto di molteplici aspetti, dall’altro, la realizzazione concreta degli specifici interventi ha dimostrato gravi carenze sia negli aspetti della pianificazione sia in quelli più propriamente operativi. In Puglia, in particolare, l’iniziativa “Capo free ghetto off”è rimasta in gran parte inattuata.
LE RICHIESTE DI MEDU
In conseguenza della gravità del quadro riscontrato in tutti i territori d’intervento, MEDU chiede alle istituzioni locali e nazionali l’adozione di alcuni provvedimenti urgenti, volti a migliorare fin dalla prossima stagione le condizioni di vita e di lavoro dei migranti impiegati in agricoltura. Allo stesso tempo ritiene necessario l’avvio di programmi e interventi integrati per affrontare la questione in tutta la sua complessità nel medio e lungo periodo. Tali provvedimenti, dice Medu, devono necessariamente superare l’approccio emergenziale e tener conto di più aspetti interconnessi: lavoro, accoglienza, assistenza sanitaria, trasporti, tutela legale, contrasto del caporalato e sostegno alle imprese etiche. Medu formula alcune proposte operative articolate in sette punti: una strategia integrata contro il sistema dello sfruttamento; una programmazione di medio e lungo periodo fuori dall’emergenza; leggi e investimenti per il rilancio dell’agricoltura; una cultura della legalità; minime condizioni di accoglienza per gli stagionali; soluzioni abitative oltre le tendopoli; accesso alle cure all’interno del Servizio sanitario nazionale.
SCHEDA/30 MILA IMMIGRATI IN AGRICOLTURA
Nel 2013 sono stati più di 320mila gli immigrati, provenienti da 169 diverse nazioni, impegnati regolarmente nelle campagne italiane. Questi hanno svolto circa 26 milioni di giornate di lavoro pari al 23,2% delle giornate dichiarate complessivamente, tra italiani e stranieri, in quell’anno. Come ammette Coldiretti, i “distretti produttivi di eccellenza del Made in Italy possono sopravvivere solo grazie al lavoro degli immigrati”. Ancora, secondo i dati Eurispes, il lavoro sommerso riguarda il 32% del totale dei dipendenti del settore agricolo, di cui circa 100 mila, per lo più stranieri, sono sottoposti a gravi forme di sfruttamento e costretti a vivere in insediamenti malsani e fatiscenti. La presenza di un numero consistente di braccianti stranieri impiegati in modo stagionale, soprattutto nella fase della raccolta e nei lavori meno qualificati, si inserisce, dunque, all’interno di un quadro molto articolato dove l’apporto dei lavoratori immigrati risulta decisivo per il funzionamento dell’agricoltura italiana.