14 Mag 2013
di Vincenzo Intermite
Ancora una volta, per bocca di uno dei nostri politici, il diritto di cittadinanza viene coniugato all’acquisizione di una non meglio specificata “identità culturale”.
Nel corso di un’intervista rilasciata martedì 30 aprile, la capogruppo del M5S alla Camera, On. Lombardi, ha dichiarato di essere d’accordo con il neoministro all’integrazione Cecile Kyenge per quanto concerne il passaggio in Italia dallo ius sanguinis allo ius soli, “purché questo avvenga in una cornice di legalità: se il bambino è integrato e respira la cultura del paese, va bene” (sic). Come si faccia ad appurare che un neonato sia integrato e respiri “italianità” resta un mistero, anche dopo la precisazione della parlamentare all’intervistatore che le faceva notare l’evidente assurdità della posizione da lei espressa: “quello che voglio dire è che non basta renderlo italiano subito. Va costruita l’integrazione”.
Che cosa debba intendersi con la parola “integrazione” nel linguaggio dell’On. Lombardi e in questo contesto non si capisce molto bene. Se significa che il bambino deve imparare a rispettare le leggi vigenti in Italia, allora non stiamo dicendo altro che pure e semplici banalità, perché anche per me e la signora Lombardi, che, insieme ad altri 60 milioni di individui circa, siamo nati entro i confini del territorio italiano da genitori italiani è stato necessario costruire l’integrazione: nessuno ha mai pensato che i bambini nati in Italia da genitori stranieri debbano essere esonerati dal rispetto delle leggi del Paese.
Se non è questo il senso, allora non resta che la solita associazione fra il diritto alla cittadinanza e l’acquisizione della “identità culturale”: il problema, però, si ripropone anche su quest’altro versante. Che cosa vuol dire che il bambino deve acquisire l’identità culturale del Paese? Significa che deve tagliare tutti i ponti con la cultura di provenienza trasmessagli dalla famiglia per lasciarsi fagocitare dalla cultura del paese di accoglienza? Significa che debba rinunciare alle proprie peculiarità e uniformarsi ad una totalità che non gli appartiene? Significa che per poter sperare di avere un futuro debba essere obbligato ad una scelta tra il suo passato e il suo presente? Significa lasciarsi dilaniare fra due culture che gli vengono proposte come antitetiche finendo con l’essere due volte straniero: rispetto al paese di arrivo e rispetto a se stesso?
La difficoltà sta nel modo con cui comunemente si intende il termine “identità”: questa viene intesa come qualcosa di dato una volta per tutte, come fosse un paradigma fisso al quale ogni condotta, ogni scelta, ogni stile di vita deve uniformarsi: così intesa l’identità, l’integrazione si tramuta in fagocitazione, omologazione, appiattimento dell’Altro a ciò che noi siamo. L’identità non è sostanza, ma processo; non è già data, ma è incessantemente da farsi, in fieri; l’identità è un cantiere perennemente aperto e si espande attraverso la relazione col “Tu”, e quanto più questo “Tu” è diverso tanto più è costruttivo e tanto più contribuisce all’edificazione dell’identità. L’identità senza differenza è nulla, si riduce ad un’illusione che mente a se stessa, ad una forma di vuoto narcisismo depauperante che induce al solo specchiarsi e adularsi e a non crescere mai. Solo così intesa l’identità, l’integrazione diventa reale incontro con l’Altro, scambio di bene, reciproco arricchimento, convivialità nel rispetto delle differenze.