CITTADINANZA E IDENTITÀ CULTURALE: IUS CULTURAE?

14 Gen 2013

di Vincenzo Intermite

 

Qual è il brodo primordiale alla cui superficie galleggia la vischiosa pertinacia con la quale si coniuga la concessione della cittadinanza allo straniero ad una ‘identità culturale’ il cui senso va cercato più che nella realtà effettuale e nel corso della storia, in una concezione anacronistica e astratta delle attuali organizzazioni statali? Una risposta si impone per lo stretto legame che costantemente lega diritto alla cittadinanza e acquisizione della cultura nelle politiche sull’immigrazione, tanto più che quel legame riappare nella recente proposta dell’ex ministro Riccardi di condizionare la concessione della cittadinanza agli stranieri ad un corso di studi finalizzati all’acquisizione dei fondamenti della nostra cultura: ciò che egli definisce ius culturae).

Se guardiamo al nostro Paese, riesce difficile individuare una identità culturale italiana unica ed esclusiva, non solo perché è una nazione giovane, ma soprattutto perché è stata, nel corso della sua storia, luogo di incontro e scontro fra le più disparate civiltà, culture, religioni e continua oggi ad essere un coacervo di tradizioni, stili di vita, credenze, valori che ne fanno una realtà estremamente ricca e complessa.

Se poi guardiamo all’Occidente nella sua generalità, la situazione ci appare ancora più articolata: la diversità dei percorsi storici ha determinato diverse weltanschauung, diverse modalità di affrontare e dare soluzione ai problemi del reale, diversi modi di concepire gli assetti politici e istituzionali pur nell’alveo della concezione liberaldemocratica dello Stato, la quale è, appunto, una concezione; d’altra parte è solo da sessant’anni che i diversi paesi europei hanno smesso di farsi vicendevolmente guerra.

Tutto ciò fa pensare che la nozione di ‘identità culturale’ sia ampiamente superata dai tempi e dunque totalmente estranea alle realtà politiche odierne: essa non è altro che il cascame del Nazionalismo ottocentesco che, ricordiamolo, nato come ideologia sottostante alla lotta per la liberazione nazionale dall’occupazione straniera, sfociò, successivamente, in politiche aggressive ai danni dei popoli afro-asiatici, in nome della grandezza del proprio Stato e della superiorità razziale del proprio popolo.

Essa si pone, dunque, alle origini della vocazione colonialista dell’Occidente; ma tale vocazione si esprime tutt’oggi attraverso quello che sulle colonne dei giornali, nei dibattiti televisivi, negli interventi pubblici dei politici, viene indicato con le espressioni ‘assimilazione’, ‘integrazione’. Con tali espressioni si vuol significare la necessità che l’immigrato che voglia essere accolto nei confini dello Stato e, a maggior ragione che voglia acquisirne la cittadinanza, debba assimilarne i valori, gli stili di vita, le credenze, in una parola la cultura, in modo da integrarsi con il resto della popolazione; ciò che, però si chiede realmente allo straniero, al di là delle dichiarazioni di intenti, non è tanto che assimili la cultura dello Stato che lo accoglie, quanto che si lasci assimilare dalla cultura dello Stato che lo accoglie, che cioè rinunci alla propria peculiarità, che si lasci fagocitare e si uniformi a una totalità che non gli appartiene, finendo con l’essere doppiamente straniero: relativamente al paese in cui risiede e relativamente a se stesso.

Ma a quale cultura ci si riferisce, se, come si è visto, esse sono fittizie? Che cosa gli immigrati dovrebbero assimilare o da cosa dovrebbero lasciarsi assimilare per diventare a tutti gli effetti cittadini italiani? A ben guardare c’è un solo fatto culturale che accomuna l’intero occidente e consiste nella riduzione della società a mercato attuata dalla classe borghese lungo il corso dell’Età Moderna, per cui gli individui smettono di essere tali per diventare portatori di interessi (U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, 2009, cap. 18), smettono di manifestarsi all’altro per ciò che sono, per essere, invece, valutati per quello che hanno o che possono procurare o che possono produrre, abbandonano la dimensione dell’essere per collocarsi in quella del puro e semplice avere.

In questo contesto di de-individualizzazione dei rapporti sociali, l’accoglienza dello straniero si inquadra in una relazione sfruttato-sfruttatore e si riduce ad un mero calcolo di entrate ed uscite, per cui se le prime superano le seconde, lo straniero è utile, e, dunque, assimilato, in caso contrario, è un corpo estraneo che va espulso.

È questa l’identità culturale che, nell’età della globalizzazione l’Occidente intende trasmettere al Volto che gli si manifesta come Altro, come Diverso, ma, ancora una volta questa identità all’Altro è estranea, ancora una volta, la diversità dell’Altro viene negata.

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