14 Gen 2013
di Vincenzo Intermite
I lavoratori di Rosarno e dintorni, che tre anni fa ebbero la ventura di essere presi a pallettoni in un’assurda e incomprensibile caccia all’immigrato, in questi giorni si ritroveranno senza un tetto sulla testa a causa del provvedimento di sgombero della tendopoli nella quale erano stipati e di tutti gli altri alloggi di fortuna di cui avevano sinora fatto uso.
Il Fatto Quotidianodel 18 dicembre 2012 riporta le dichiarazioni indignate e quasi disperate dei sindaci di Rosarno e di San Ferdinando che lamentano l’indifferenza delle autorità nazionali e locali per le condizioni di disumana miseria cui sono costretti questi lavoratori e denunciano di essere stati lasciati completamente soli di fronte ad un problema sociale di estrema gravità e di difficile soluzione; dei finanziamenti che erano stati promessi per la costruzione di nuovi alloggi ammontanti a circa 2 milioni di euro non si è vista neanche l’ombra e nel frattempo l’economia nazionale si è avvalsa della fatica e del sudore di queste persone che producono tanto e guadagnano pochissimo.
Mi riesce difficile, di fronte all’ostinata indifferenza e all’assordante silenzio di quasi tutte le autorità competenti nei confronti di questo problema, soffocare la sensazione, se non il sospetto, che questo atteggiamento non sia che una forma subdola di ‘respingimento’: non quello becero e brutale dei leghisti, attuato con la forza di una legislazione che non riesce a celarne la matrice razzista, ma quello sobrio ed elegante di chi fa terra bruciata attorno ad un gruppo sociale perché questo ‘volontariamente’ rinunci ad eleggere a proprio luogo di residenza il posto in cui lavora, e, al contempo ne rimanga legato quanto basta perché possa fornire, all’occorrenza, la propria opera.
Di fronte a situazioni di questo tipo c’è da chiedersi se, nell’età della cosiddetta globalizzazione, in cui la disparità planetaria tra Nord e Sud del mondo si manifesta platealmente nella forma del più massiccio trasferimento di persone che mai si sia verificato nel corso della storia dell’umanità, non sia il caso di riconsiderare il concetto minimo di democrazia, e di ampliarlo fino a comprendere, nei suoi principi fondamentali, accanto al diritto di voto e al principio della maggioranza, quello della solidarietà, allargata a chiunque viva nel territorio dello Stato per vivere in pace, lavorare e perseguire il proprio benessere. A ben guardare, infatti, quei due principi che finora hanno costituito il cardine di ogni democrazia, risultano oggi una pura formalità se si continuano ad ignorare le trasformazioni sociali determinate dai movimenti migratori e se si continuano ad attuare politiche sociali avulse dalle nuove necessità provenienti dal tessuto sociale e dal più ampio contesto internazionale. Si tratta cioè di scegliere se restare anacronisticamente ancorati ad una democrazia caratterizzata da un’idea sciovinistica di identità nazionale e legata allo Stato-nazione nel suo significato più deleterio, o formulare ed attuare una democrazia fondata sui principi dell’accoglienza, dellasolidarietà e dell’incontro pacifico tra i popoli. La prima, quella dei respingimenti e degli sgomberi, sappiamo a che cosa ha condotto nel corso del Novecento; la seconda, quella della solidarietà, è ancora di là da venire, nella dimensione della speranza, ma è l’unica, io credo, che possa divenire il futuro del pianeta.