13 Ott 2011
L’edizione 2011 delle Prospettive sulle migrazioni internazionali(International Migration Outlook), pubblicato in Italia da Sopemi, parla di un notevole decremento dei flussi migratori all’interno e verso i Paesi OCSE. Nel 2009, l’anno peggiore della crisi economica, nei 24 Paesi OCSE, più la Federazione Russa, l’immigrazione è calata di quasi il 7%. La riduzione si deve al declino della libera circolazione (-22%) e alla battuta d’arresto della migrazione a scopo di lavoro (-6%)
Il declino della libera circolazione è stata la causa principale del calo generale avvenuto nel 2009, con una riduzione di circa il 22% rispetto al 2008 (230.000 individui). Allo stesso modo, la migrazione a scopo di lavoro ha subito una battuta d’arresto, con circa il 6% in meno, e si attesta oggi agli stessi livelli dei movimenti di libera circolazione. Per altre categorie di migrazione, in particolare quella dovuta a ragioni umanitarie o di ricongiungimento familiare, meno legate alle situazione economica, i mutamenti rispetto al 2008 sono stati meno significativi.
La migrazione temporanea a scopo di lavoro resta comunque elevata, anche se interessata dalla flessione economica. In particolare, il numero di lavoratori temporanei entrati nei Paesi OCSE ha raggiunto circa 1,9 milioni di persone, notevolmente più elevato rispetto al numero di lavoratori migranti permanenti, il quale è rimasto stabile a circa 1,5 milioni, dopo una diminuzione di circa il 16% avvenuta nel 2009 rispetto al 2008. Tale diminuzione seguiva alla contrazione dell’1% registrato nel 2008. Precedentemente, i flussi erano cresciuti ogni anno del 7% per quasi un decennio. La più ampia categoria singola di lavoratori migranti temporanei, più di uno su quattro nel 2009, è quella dei lavoratori stagionali, in gran parte lavoratori agricoli poco qualificati. La categoria successiva è quella della vacanzalavoro, che ha costituito circa il 20% nel 2009. I trasferimenti intra-aziendali hanno inciso per circa il 6% della migrazione di lavoratori temporanei.
Il numero di persone che chiedono asilo è rimasto stabile attestandosi a circa 363.000 individui, virtualmente immutato rispetto ai livelli del 2008. Ciò costituisce un livello relativamente basso, rispetto ai picchi storici raggiunti tra gli inizi e la metà degli anni Novanta o addirittura rispetto alla quota di oltre seicentomila raggiunta prevedibile sul numero di domande e,
secondo i dati preliminari, le domande non sono aumentate nel 2010. Iraq, Serbia e Afghanistan sono i principali Paesi di origine dei flussi.
Un numero sempre maggiore di Paesi guarda agli studenti internazionali quali fonte potenziale di immigrati altamente qualificati o istruiti e il numero di studenti in entrata nella zona OCSE è continuato ad aumentare nel 2008 di circa il 5% rispetto al 2007 superando i 2,3 milioni di individui. Di tutti gli studenti internazionali, oltre il 18%, ovvero circa 410.000 persone, proviene dalla Cina, il 7% dall’India (163.000) e il 5% dalla Corea (110.000). Il tasso stimato di studenti che decidono di restare nel Paese di accoglienza varia dal 17% in Austria al 32%-33% in Francia e Canada, mentre nella maggior parte dei Paesi si attesta tra il 20 e il 30%.La migrazione proveniente dalla Cina incide per circa il 9% di tutti i flussi in entrata, mentre Rumeni, Indiani e Polacchi hanno costituito rispettivamente il 5%, 4,5% e il 4% delle entrate nel 2009. Rispetto ai movimenti osservati prima della crisi, i maggiori declini in termini assoluti sono stati registrati nelle migrazioni in provenienza dai nuovi Stati membri dell’UE, in particolare da Romania, Polonia e Bulgaria.
La popolazione di immigrati contribuisce notevolmente alla crescita demografica in numerosi Paesi OCSE. Nel 2009, i nati all’estero rappresentavano il 14% della popolazione totale nei Paesi OCSE per i quali erano disponibili dati. Ciò costituisce un aumento del 13% rispetto al 2006 e del 37% rispetto allo scorso decennio. In 20 Paesi OCSE su 34, gli immigrati hanno superato il 10% della popolazione totale. I Paesi tradizionali di immigrazione come la Germania e i Paesi Bassi (con popolazioni di immigrati rispettivamente del 13% e 11%) sono stati sorpassati dai nuovi Paesi di immigrazione come l’Irlanda e la Spagna.
Nel 2009 e 2010, l’evoluzione delle politiche migratorie ha in parte risentito del rallentamento economico e delle misure restrittive adottate in alcuni Paesi OCSE nei confronti della migrazione a scopo di lavoro. È il caso, ad esempio, della Spagna o dell’Irlanda o anche del Regno Unito, dove il cambio di governo ha introdotto un approccio molto più restrittivo in materia di immigrazione a scopo di lavoro. Allo stesso modo, le politiche per la gestione dell’immigrazione per motivi umanitari e familiari e i controlli alle frontiere si sono inaspriti nel periodo in esame,
In parallelo, i programmi di integrazione destinati ai nuovi arrivati, come le famiglie e i rifugiati, si stanno diffondendo sempre di più e numerosi Paesi OCSE ne stanno ampliando la portata al fine di migliorare la capacità di comunicazione dei nuovi immigrati nella lingua del Paese ospitante nonché le loro conoscenze delle principali istituzioni della società di accoglienza. Nel 2009-2010 v’è stato altresì un incremento di misure intese a integrare gli immigrati nel mercato del lavoro, in particolare in termini di riconoscimento delle qualifiche ottenute all’estero; inoltre, l’integrazione dei figli di immigrati continua a polarizzare l’attenzione dei politici.
Gli immigrati sono stati fortemente colpiti, e quasi nell’immediato, dal rallentamento economico. Nei primi tre trimestri del 2008 e del 2009, il tasso di disoccupazione tra i nati all’estero è notevolmente aumentato in tutti i Paesi OCSE. Da allora, la situazione si è più o meno stabilizzata ma la crescita economica resta ancora insufficiente per poter assorbire la stagnazione dell’utilizzo di forza lavoro. In Spagna, ad esempio, nel quarto trimestre del 2010, il tasso di disoccupazione dei nati all’estero ha raggiunto il 29,3% rispetto al 18,4% dei locali. In tale contesto, non si può escludere un impatto negativo di lungo termine, in particolare per gruppi specifici particolarmente colpiti quali gli immigrati. In numerosi Paesi, sono stati soprattutto i giovani immigrati a registrare esiti occupazionali sfavorevoli già da prima della crisi economica. In tutti i Paesi i cui dati ci sono pervenuti, tranne la Germania, il tasso di occupazione dei giovani immigrati tra i 15 e i 24 anni è diminuito negli ultimi tre anni ed in misura maggiore rispetto a quello dei giovani locali. In media nei Paesi Europei OCSE, nel terzo trimestre del 2010, il 24,5% dei giovani immigrati era senza impiego, rispetto al 19,6% di giovani nati in loco. Le cifre corrispondenti relative agli Stati Uniti si attestano rispettivamente al 15,8% e al 18,8% (Canada 19,4% e 14,2%; Australia 12,9% e 11,3%; Nuova Zelanda 19,9% e 16,4%). Per evitare impatti negativi di lunga durata sull’integrazione di questo gruppo nel mercato del lavoro, che potrebbero condurre a situazioni di stigmatizzazione e di scontento sociale, la gestione di tale problematica è da porre urgentemente in cima alle priorità politiche.
Se gli uomini immigrati hanno avuto delle difficoltà nel mercato del lavoro, le donne sono state meno colpite dalle ripercussioni della crisi economica. Una delle ragioni è la concentrazione del lavoro femminile in settori che non hanno subito in maniera estensiva gli effetti negativi della crisi economica (come i servizi sociali e a domicilio).
Un’altra possibile spiegazione è che le donne immigrate potrebbero aver aumentato le ore di lavoro per compensare la riduzione di reddito familiare dovuta alla disoccupazione degli uomini.
Nei periodi di rallentamento economico, sebbene la creazione netta di posti di lavoro sia negativa, si continua ad assumere. L’occupazione degli immigrati è aumentata in alcuni settori (istruzione, salute, assistenza a lungo termine, servizi a domicilio), mentre si è ridotta in altri (edilizia, finanza, commercio all’ingrosso e al dettaglio, ecc.). Tuttavia, resta da appurare se i lavoratori immigrati licenziati possano cogliere le nuove opportunità di impiego. In tale contesto, sussiste il rischio di persistenza della disoccupazione di lungo termine per categorie specifiche di lavoratori, in particolare gli uomini con bassa o media qualifica.
In media nei Paesi OCSE, la percentuale di imprenditori immigrati differisce solo leggermente da quella degli imprenditori locali, ma si registrano differenze notevoli tra i diversi Paesi e nel corso del tempo. Tuttavia, in gran parte dei Paesi OCSE, è più probabile che gli immigrati diano vita a una nuova attività, anche se il tasso di sopravvivenza di tali attività è più basso rispetto a quello delle attività intraprese da imprenditori locali. In media, un lavoratore autonomo immigrato proprietario di una piccola o media impresa crea tra 1,4 e 2,1 nuovi posti di lavoro, cifre leggermente
inferiori a quelle create dalle loro controparti locali (1,8-2,8). Diversi Paesi OCSE hanno introdotto politiche specifiche a supporto degli imprenditori immigrati. Una prima serie di politiche consiste in misure mirate, intese ad accompagnare gli immigrati già stabilitisi nel Paese ospitante tanto in caso di creazione quanto di sviluppo di attività. La seconda serie di misure prevede specifiche politiche di ammissione intese a regolare l’entrata e il soggiorno di imprenditori e investitori stranieri in un dato Paese. Tali politiche di ammissione sono volte a selezionare quegli imprenditori il cui capitale umano e finanziario e i cui progetti aziendali sono suscettibili di soddisfare le esigenze economiche del Paese ospitante e assicurare il successo delle loro attività.
PER SAPERNE DI PIU’:
http://www.oecd.org/document/40/0,3746,en_2649_37415_48303528_1_1_1_37415,00.html