15 Giu 2011
Nel corso del convegno svoltosi a Bologna il 7 giugno sulla presenza e sulla rappresentanza dei lavoratori immigrati nel settore socio-sanitario è intervento anche Mohcine El Arrag, delegato sindacale della Coop. Sociale “Domus Assistenza” Modena e nostro collaboratore. Crediamo sia utile proporre quanto ha detto.
LA RAPPRESENTANZA DEL LAVORATORE IMMIGRATO
NEL SETTORE SOCIO-SANITARIO
di Mohcine El Harrag
Secondo statistiche Eurostat confermate dal rapporto del mese scorso dell’Ocse sull’assistenza alla persona, nell’Europa a 27 la fascia di persone con più di 65 anni raddoppierà entro il 2060 passando da 84 a 151 milioni circa, dal 17,1 al 30 per cento della popolazione.
Contemporaneamente, triplicheranno le persone con più di 80 anni, passando da 21 a 61 milioni circa.
A fronte di questo sconvolgimento demografico i lavoratori immigrati continueranno ad essere una risposta importante come
* fattore di crescita della popolazione,
* di sostegno alla forza lavoro attiva,
* risposta a una domanda sempre più grande di welfare.
L’Italia, in particolare, è uno dei Paesi dove la popolazione anziana è già e sarà sempre più numerosa e dove già adesso è immigrato un lavoratore su due tra quelli impiegati sia nelle residenze assistenziali che a domicilio.
Quest’ultimo dato, vale la pena sottolinearlo, dice che più che consumare welfare, come sostengono politici in malafede, i lavoratori immigrati lo creano.
L’Ocse non dice solo che i lavoratori immigrati sono e ancora più saranno necessari nel settore dell’assistenza. Dice anche che se i Paesi europei, e l’Italia in particolare, vogliono attrarli e stabilizzarli devono migliorarne le condizioni di lavoro.
Basta, insomma, a bassi salari, dequalificazione, precarietà.
Il settore socio-sanitario e della cura è un settore che vede in alto i medici, subito sotto gli infermieri e all’ultimo gradino tutti gli altri.
Nell’ultimo gradino cresce soprattutto la presenza di lavoratori immigrati, e non a caso.
Cresce perché vi si trovano soprattutto lavori che gli italiani rifiutano; ma anche per il mancato e difficile riconoscimento dei titolo acquisito nel Paese di origine; per l’impossibilità a partecipare ai concorsi pubblici; e così via. Soprattutto sono sempre più presenti perché il pubblico per motivi di risparmio ha convenienza a delegare al privato e a figure più ricattabili come i lavoratori immigrati.
E, infatti, come già detto, il settore socio-sanitario è caratterizzato da bassi salari, dequalificazione e precarietà.
Il pubblico, poi, delega, consentitemi quest’annotazione, senza preoccuparsi dell’impatto sulla qualità dei servizi. Io, peraltro, trovo inquietante l’affidamento sempre più spinto a logiche di mercato di un settore che naturalmente ha la sua ragion d’essere in un principio di solidarietà.
Da ciò che qui si è detto, appaiono subito chiari alcuni degli obiettivi della rappresentanza sindacale nel settore, in particolare per quanto riguarda il contrasto ai bassi salari, alla dequalificazione, alla precarietà. Per il raggiungimento di questi obiettivi abbiamo lo strumento della contrattazione. E contrattare nel nostro settore non è semplice. Non a caso non abbiamo ancora rinnovato il contratto dopo quasi un anno e mezzo.
Meno chiara, sicuramente meno praticata è a mio parere la rappresentanza e la tutela del lavoratore immigrato in quanto cittadino.
Le due condizioni, di lavoratore e di cittadino, nel caso dell’immigrato sono ancora più intrecciate che per l’italiano. Arrivano a fondersi.
In Italia, il lavoratore immigrato è fortemente condizionato da un contesto culturale, sociale e di mercato che tende ad escludere, e da leggi che spingono nella stessa direzione: si pensi alla Bossi-Fini.
La sua tutela non può che essere, dunque, a tutto campo. E una rappresentanza a tutto campo richiede uno specifico background culturale, specifiche conoscenze.
In un settore come il nostro, così come in altri dove la presenza di lavoratori immigrati è in forte crescita, è necessario che il funzionario sindacale e il delegato si rendano conto, ad esempio, dello stretto rapporto che esiste tra contratto di soggiorno e possibilità di restare in Italia. Non rendersene conto vuol dire non comprendere appieno la condizione dell’immigrato. E c’è addirittura chi non sa cos’è un contratto di soggiorno.
Alcune già lo fanno, ma in tutte le categorie che vedono più presenti i lavoratori immigrati deve diventare normale affiancare ai corsi sulla busta paga, sulla contrattazione, sulla sicurezza, quelli sulla normativa di riferimento per i lavoratori che vengono da altri Paesi, magari con stage presso gli uffici stranieri. Contratto di soggiorno, permesso Ce per lungosoggiornati, attesa occupazione non devono più essere espressioni misteriose, così come non lo sono disoccupazione ordinaria, assegni familiari e così via.
In un sindacato, poi, che ha in sé, oramai, i mille colori del mondo diventa altrettanto importante curare la formazione culturale del delegato e del funzionario.
Ad esempio io trovo bella, importante, utile l’esperienza di un corso che da due anni organizza la Cgil di Modena sulle discriminazioni. Il corso, al quale ho partecipato, passa al setaccio, tra l’altro, i concetti di cultura e di identità ed esamina i pregiudizi e gli stereotipi.
Rappresentanza a tutto campo, dunque, che significa contrattazione, non solo di categoria, ma confederale, per tutelare anche sul terreno della cittadinanza. E sul terreno della cittadinanza, per affermare diritti e tutele, la contrattazione deve accompagnarsi ad una intensa attività vertenziale. Ho citato le discriminazioni nell’accesso ai concorsi pubblici, ma, per fare altri esempi, spesso non è garantito il diritto alle assistenze socio-sanitarie, o alla casa, vero e proprio dramma per molte famiglie e singoli lavoratori stranieri. Pensate, poi, alle ordinanze xenofobe quando non razziste di tanti sindaci che si sono susseguite in questi anni.
Rappresentanza sono anche le class action avviate in questi giorni dalla Cgil nazionale sulle cittadinanze e le carte di soggiorno.
Rappresentanza è l’impegno per superare i limiti della politica migratoria, anche per evitare che manodopera qualificata, o comunque necessaria, preferisca mete pù facili ed accoglienti.
Per fare degli esempi, occorrerebbe rivedere il meccanismo delle quote. In particolare occorrerebbe scindere lo stretto rapporto tra ingresso e possesso di un contratto di lavoro con l’opportunità di un permesso per ricerca di lavoro. Un altro cambiamento da introdurre sarebbe quello di allungare da sei mesi ad un anno il limite del permesso per attesa occupazione, assolutamente importante in un settore come il nostro dove la precarietà è norma e in tempo di crisi e tagli si trasforma facilmente in perdita di lavoro.
Io credo che la Cgil faccia davvero molto, ma uno sforzo in più, secondo me, andrebbe richiesto ai territori, dove non sempre è sufficiente l’impegno della rappresentanza e tutela del lavoratore immigrato come cittadino.
Io non credo, infine, che sia automatico che la presenza di più immigrati negli organismi e tra i funzionari risolva di per sé la questione della rappresentanza, ma una insufficiente presenza di certo non aiuta a sviluppare certe sensibilità e, di certo, segnala qualche problema.
Investiamo, dunque, per una più efficace rappresentanza e tutela sul terreno contrattuale e della cittadinanza, e facciamo anche un ulteriore sforzo per rendere più visibile al nostro interno una presenza così importante in tanti segmenti del mercato del lavoro. E tra gli iscritti. I quali, peraltro, crescono, grazie ai migranti.
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