15 Set 2014
di Ciro Spagnulo
Anche l’attuale governo ritiene che il problema principale per l’occupazione in Italia sia la rigidità dei contratti, non la mancanza di lavoro. E perciò ha liberalizzato del tutto i contratti a termine con il primo provvedimento del cosiddetto Jobs Act. Questa ulteriore estensione della precarietà colpisce duramente le fasce più deboli del mercato del lavoro, con costi aggiuntivi per donne e immigrati. Per i giovani diminuiscono le già scarse speranze di stabilizzazione e la possibilità di accedere ad ammortizzatori sociali decenti. I datori di lavoro a cui non piacciono le donne in maternità non devono più ricorrere alle dimissioni in bianco, dal momento che ora più che mai possono aggirare la norma sul divieto di licenziamento durante il periodo protetto con il ricorso sistematico ai contratti brevi. Aumenta il potere ricattatorio sugli immigranti, la cui permanenza in Italia è legata al lavoro, e, più di prima, li condanna, con le famiglie, a rinnovi continui e dispendiosi del permesso di soggiorno, dal momento che contratto a termina significa permesso annuale.
Contro questa ulteriore precarizzazione, la Cgil ha presentato una denuncia alla Commissione europea perché in contrasto con la prevalente disciplina europea sul lavoro. Su un punto in particolare la Cgil insiste: la legge 78, eliminando l’obbligo di indicare una causale nei contratti a termine, sposta la prevalenza della forma di lavoro dal contratto a tempo indeterminato al contratto a tempo determinato, in netto contrasto con la disciplina europea che, al contrario, sottolinea l’importanza della “…stabilità dell’occupazione come elemento portante della tutela dei lavoratori.