REATO DI SOLIDARIETÀ

12 Set 2013

 

di Vincenzo Intermite

 

Una persona lontana dal suo paese di origine, priva di documenti, e bisognosa di cure, necessita assolutamente di una certificazione di alloggio, che le consenta la permanenza nel luogo in cui segue la terapia alla quale si è affidata per la propria guarigione; un uomo del posto, resosi conto dell’assoluta urgenza del caso, gliene fornisce una non autentica, sciogliendo con un atto risoluto, quel groppo inestricabile nel quale, il più delle volte, si risolve l’insieme delle pastoie burocratico-amministrative. È quanto è avvenuto a Le Havre, in Francia, dove adesso Léopold Jacquens, rischia un anno di carcere e 15000 euro di multa, per aver aiutato una donna in difficoltà e, probabilmente, in pericolo di vita: un caso paradossale di “reato di solidarietà”.

L’episodio ripropone un vecchio problema filosofico: quale deve essere il comportamento di colui il quale, membro di uno stato e, dunque, tenuto a rispettarne le leggi, percepisce una o più di tali leggi in contraddizione con i principi di umanità e solidarietà? Bisogna anteporre le leggi dello stato a quelle della ragione naturale o, viceversa, di fronte a casi concreti di autentica sofferenza, bisogna accantonare le vigenti normative e operare secondo i dettami della propria coscienza? La legge è giusta solo perché emanazione della sovranità dello stato o perché è conforme a supremi principi generali e universali che si pongono oltre e al di sopra di ogni stato e di ogni specifica giurisprudenza? E infine, in un paese democratico il cittadino è colui che, per obbedire alla legge, deve diluirsi all’interno dello stato fino a perdere la propria identità, o deve essere colui che di quello stato è parte integrante e fondante e la cui particolare identità è una delle colonne portanti della comunità e della civile convivenza?

Se la risposta a tali domande poteva presentarsi ardua fino alle soglie del XX secolo, per le generazioni che, in modo diretto o indiretto, sanno che cos’è un regime totalitario, la risposta appare meno complessa: è nei regimi totalitari che si afferma la suprema autorità dello stato e il totale annichilimento dell’individuo; è nei regimi totalitari che si impedisce con la forza o con la “persuasione” qualunque tentativo di stemperare l’astrattezza e l’impersonalità della legge per motivi umanitari, per non aprire spiragli alla dissidenza; è nei regimi totalitari che si stravolgono le coscienze per modellarle ai supremi interessi dello stato; è nei regimi totalitari che si giustifica una legge, anche la più disumana e infame, come quelle razziali in Germania e in Italia, sulla base della sua pura e semplice discendenza dall’ assoluto (ab-solutus = sciolto da) e indiscutibile imperio dello stato.

In una società democratica, l’individuo è parte della comunità senza perdersi in essa, anzi contribuendo al suo sviluppo e al suo perfezionamento mediante la parola e l’azione; così il comportamento di Léopold Jacquens può proficuamente indurre ad una più attenta riflessione sulle leggi vigenti in materia di immigrazione e ad un loro maggiore approfondimento, perché non accada più che ad una persona, da qualunque posto del mondo provenga, possa essere negato il diritto alla salute e, forse, alla vita, per una mera questione burocratica.

Certamente, anche in regime di democrazia le leggi vanno rispettate, ma nel giudicare eventuali violazioni, è prerogativa del magistrato interpretare la legge alla luce della reale e concreta situazione in cui tale violazione si è verificata e delle intenzione del soggetto giuridico che tale violazione ha attuato. È quanto chiediamo per Léopold Jacquens.

LEGGI: http://www.lemonde.fr/societe/article/2013/08/28/au-tribunal-du-havre-le-retour-du-delit-de-solidarite-avec-les-sans-papiers_3467544_3224.html

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