RICERCA CGIL/L'IMPATTO DELLA CRISI SUI LAVORATORI STRANIERI

30 Ott 2013

 

L’impatto della ormai lunga crisi economica sull’inserimento e la permanenza degli stranieri nel mercato del lavoro è pesante. Sono oltre un milione e duecentomila i lavoratori immigrati che vivono nell’area della sofferenza e del disagio occupazionale con gravi ripercussioni sulla propria vita personale e familiare. E’ una condizione talmente difficile che quattro immigrati su dieci sono tentati dall’affrontare una nuova migrazione o dal tornare nel Paese d’origine. Sono dati che emergono da una ricerca promossa dall’Associazione TrentinIsfIres e dalla Cgil nazionale dal titolo “L’impatto della crisi sulle condizioni di vita e di lavoro degli immigrati”, della quale avevamo già parlato nel numero del 1 ottobre.

Secondo la ricerca, in Italia siamo davanti ad una fase nuova dei processi migratori. C’è, infatti, da un lato, un nuovo e forte rilancio dell’emigrazione italiana all’estero e dall’altro una messa in discussione del progetto migratorio di chi l’Italia l’ha scelta come nuova patria. Questa fase può portare a profonde trasformazioni del nostro sistema produttivo, demografico e sociale. Per i lavoratori stranieri le difficoltà congiunturali, che stanno via via demolendo gli sforzi e gli investimenti sui loro progetti di vita, si aggiungono ai soliti problemi, come l’impossibilità di usufruire appieno dei diritti di cittadinanza e una normativa di riferimento iniqua, sbagliata e obsoleta.

Secondo i dati Istat 2012 gli stranieri risultano essere il 10,3% del totale degli occupati (+0,4% rispetto al 2011). Però, nonostante lo scorso anno continui ad essere caratterizzato dalla crescita dell’occupazione straniera (+ 83 mila unità) e da una diminuzione di quella italiana (-151 mila unita), diversi indicatori convergono nel segnalare come l’impatto della crisi abbia colpito in misura più rilevante la componente immigrata. A differenza del recente passato, infatti, l’aumento della manodopera straniera è avvenuto a ritmi dimezzati mentre è cresciuto il numero degli immigrati in cerca di occupazione. Tra il 2011 e il 2012, con il protrarsi della crisi economica, il tasso di occupazione degli stranieri è diminuito di 1,7 punti percentuali, il tasso di attività è rimasto sostanzialmente invariato (-0,3 p.p.), mentre quello di disoccupazione è aumentato di 2 p.p. passando dal 12,1% del 2011 al 14,1% del 2012.

Le persone in cerca di un impiego non esauriscono l’universo degli esclusi dal mondo del lavoro. In Italia, diversamente da tutti gli altri grandi Paesi europei, il tasso di inattività (quota percentuale di persone di 15-64 anni che non lavorano e non cercano attivamente un impiego) è molto elevato e spiega perché, a fronte di un tasso di occupazione particolarmente basso (agli ultimi posti in Europa), il tasso di disoccupazione sia ancora abbastanza contenuto nella media europea: si calcola, infatti, conteggiando solo i disoccupati che cercano lavoro.

Per misurare la consistenza reale del non lavoro, di contare, in altre parole, gli esclusi dal mondo del lavoro, la ricerca definisce area della sofferenza quella fetta di popolazione in età da lavoro (15-64 anni) formata da disoccupati, scoraggiati disponibili (vale a dire le persone che non cercano lavoro perché ritengono di non trovarlo e comunque disponibili a lavorare) e occupati in cassa integrazione guadagni (che hanno lavorato meno o non hanno lavorato affatto nella settimana di riferimento perché in cassa integrazione). Complessivamente, nel 2012, le persone in età da lavoro (15-64 anni) di nazionalità italiana e straniera compresi nell’area di “sofferenza” sono circa 4 milioni e 300 mila pari al 11% del totale. Rispetto al 2011 il dato aumenta di circa 770 mila persone e quasi 2 punti percentuali. Nello specifico, i lavoratori stranieri in “sofferenza” sono oltre 527 mila e gli italiani quasi 3 milioni e 800 mila. Rispetto al 2011 i primi sono cresciuti di 101 mila unità (con una variazione percentuale del +23,7%.) e i secondi di 670 mila (+21,4%). Nell’area di “disagio occupazionale”, e cioè la platea di lavoratori under 65 che hanno un’occupazione a termine o sono in part ime involontario, gli immigrati sono oltre 706mila, gli italiani oltre 3.400mila.

Con il protrarsi della crisi economica, alle difficoltà occupazionali si accompagnano le trasformazioni in peggio del mercato del lavoro: maggiore precarietà e ricattabilità, dequalificazione, disparità retributive.

A questo riguardo, già una precedente ricerca dell’Ires Cgil di inizio anno, “Il mercato del lavoro immigrato negli anni della crisi”, aveva tracciato un quadro dettagliato, che di seguito sintetizziamo.

Come detto, i lavoratori immigrati rappresentare oltre il 10 del totale degli occupati. Sono soprattutto lavoratori dipendenti (87%), mentre gli autonomi rappresentano l’11,8% e i collaboratori solo l’1,3%, ma questi ultimi sono aumentati del 50% nel corso degli ultimi 4 anni (+10 mila). Così come è cresciuto in misura significativa tra il primo semestre 2008 e lo stesso semestre del 2012 il numero di lavoratori immigrati a tempo parziale dipendenti e autonomi (+78%) e il peso dell’occupazione part-time sul totale dell’occupazione straniera (al 25,2%; era il 20,1% nel primo semestre 2008).

Si stima inoltre che circa il 7,5% dei dipendenti stranieri nel primo semestre 2012 lavorasse sulla base di accordi verbali (senza la stesura formale di alcun contratto), una prevalenza pari ad oltre il doppio di quella osservata per la componente italiana.

E’ un dato è in linea con quello relativo alle modalità di accesso al lavoro: circa il 64% degli occupati immigrati riferisce infatti di avere trovato l’impiego attraverso la rete informale di parenti o amici (contro il 31% degli italiani) e si concentrano soprattutto in alcuni settori, come i servizi collettivi e alla persona (37,4%) e le costruzioni (18,9%). Un altro aspetto da considerare è che oltre un terzo degli occupati immigrati svolge una professione non qualificata e quasi il 60% è impiegato in una microimpresa (contro il 34% degli italiani), con tutto ciò che questo comporta in termini di natalità-mortalità delle imprese, di rischio licenziamento, di accesso agli ammortizzatori sociali e di possibilità di sindacalizzazione.

Il lavoro autonomo è in crescita del 14,6. Però da una parte ci sono i lavoratori dipendenti che decidono di valorizzare la loro esperienza e professionalità per mettersi in proprio (un percorso frequente nel settore edile e dell’artigianato), con l’aspirazione a una crescita professionale e sociale e quindi a un miglioramento del livello economico e di vita; dall’altra ci sono persone che si adattano alle condizioni imposte dalla domanda di lavoro: si tratta in molti casi di scelte obbligate, poste in essere per evitare rischi di marginalizzazione ed esclusione. La scelta viene fatta dall’impresa che punta a ridurre il costo del lavoro e impone per questo formule contrattuali che mascherano il rapporto di sostanziale subordinazione nella forma di lavoro autonomo. In questo contesto il para-subordinato è costretto, per lavorare, a rinunciare alle tutele e alle garanzie riconosciute al lavoro dipendente.

Il lavoro immigrato si concentra soprattutto in alcuni settori: servizi collettivi e alla persona (37%), costruzioni (19,2%), agricoltura (13%), turismo (15,8%) e trasporto (11,7%). Le quote siano cresciute nell’ultimo quinquennio, specialmente in agricoltura e nei trasporti, dove il dato è quasi raddoppiato, e nei servizi alla persona (in cui c’è la crescita maggiore in termini di valore assoluto).

Nonostante la crisi, dunque, l’economia italiana continua ad avere bisogno del lavoro degli immigrati, soprattutto nei comparti caratterizzati da attività a basso valore aggiunto, creando di fatto una segmentazione occupazionale che concentra i lavoratori stranieri solo in alcuni settori e in determinate mansioni e professioni: la concorrenza con l’offerta di lavoro autoctona risulta quindi marginale e interessa solo le qualifiche più basse.

In particolare, la componente di lavoro non qualificato tra gli immigrati è pari al 34% (contro il 7,8% tra gli italiani). A far riflettere, però, è soprattutto la percentuale di occupati stranieri nelle professioni impiegatizie, tecniche, ad elevata specializzazione e imprenditoriali: solo 8 su 100 occupati immigrati svolgono una di queste professioni contro 50 su 100 occupati italiani.

Peggiorano i differenziali retributivi. I lavoratori immigrati sono concentrati nei livelli e nelle attività meno qualificate e pertanto i loro stipendi sono più bassi degli italiani. A parte l’aspetto discriminatorio, va fortemente sottolineato il rischio povertà a cui sono esposti e le implicazioni sulla società.

Nel corso degli ultimi anni, infatti, l’aumento delle disparità di reddito e salario è tra le cause dell’aggravarsi della crisi nonché dell’aumento progressivo dei cosiddetti working poor.

In tal senso va evidenziato come un accesso più problematico al sistema di welfare e alle misure di sostegno al reddito, una rete familiare spesso esempio quelli legati al rinnovo dei permessi di soggiorno), sono solo alcune delle cause di erosione del reddito degli immigrati nel nostro paese, i quali, alle prese con stipendi al di sotto della media nazionale, rischiano di scivolare sotto la soglia della povertà.

Nel I semestre 2012 la differenza tra la retribuzione media di un dipendente immigrato e quella di un dipendente italiano è complessivamente -344 euro (-26,2%).

La ricerca dell’Ires sottolinea poi come sia determinante per l’estrema debolezza e ricattabilità del lavoro immigrato la normativa sull’immigrazione, che provoca anche un effetto dumping che inquina l’intero mercato del lavoro.

Il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita viene confermato, nella ricerca dell’Associazione Trentin, dai 1065 questionari somministrati in 10 regioni italiane (Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana, Trentino Alto Adige e Veneto) e 40 diverse province. Tra le risposte particolarmente interessanti vi sono quelle sulle possibili strategie di adattamento alla crisi. Una di queste, la più radicale e anche la più difficile da attuare, per le mille implicazioni che comporta, è sicuramente la necessità di dovere emigrare nuovamente. Alla domanda diretta “vista la condizione attuale, pensi di dover emigrare ancora?”, hanno risposto in maniera affermativa il 45,6% degli intervistati. Quasi un immigrato su due, dunque, pensa di dover affrontare una nuova migrazione. E se il 12% si muoverebbe all’interno dell’Italia, cercando nuove opportunità in altre regioni, il 51% pensa di 39emigrare in un altro paese dell’Unione Europea, l’11,5% in un paese non UE e il 25% tornerebbe nel suo paese d’origine.

NON SOLO IN ITALIA NUOVA FASE DEI PROCESSI MIGRATORI

Siamo davanti ad una fase nuova dei processi migratori non solo in Italia. E’ una tendenza che si rileva anche in altri Paesi Ocse. L’International Migration Outlook 2013 segnala che la migrazione nei paesi dell’OCSE è aumentata del 2% nel 2011 rispetto all’anno precedente e alcuni dati nazionali suggeriscono un aumento simile anche nel 2012. In particolare, la migrazione all’interno dell’Unione europea è aumentata del 15%, dopo un calo di quasi il 40% durante i primi anni della crisi. La tendenza di persone che lasciano i paesi più colpiti dalla crisi è in crescita del 45% nel periodo che va dal 2009 al 2011. Il numero di greci e spagnoli che si sono trasferiti in altri paesi dell’Unione europea è raddoppiato dal 2007, raggiungendo rispettivamente 39.000 e 72.000 unità. La Germania ha visto un aumento del 73% degli immigrati greci tra il 2011 e il 2012, quasi il 50% di cittadini spagnoli e portoghesi e il 35% di italiani.

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