06 Nov 2009 presidio,
Rifugiati, richiedenti asilo, in fuga dai Talebani. Abitano in baracche di lamiera e cartone. Sulla loro testa pende una’ingiunzione di sgombero. La politica del decoro urbano lanciata da Alemanno sembra aver annichilito ogni forma di accoglienza
di Antonio Fico
La “buca” è uno scavo lungo una trentina di metri e profondo quattro, proprio di fronte al Ministero dell’Ambiente, a Roma, tra il quartiere Garbatella e la stazione Ostiense. Area privata su cui dovrà sorgere un altro palazzone. Da nove mesi, vi hanno trovato rifugio circa 150 rifugiati afgani, tutti richiedenti asilo, dopo uno degli innumerevoli sgomberi delle forze dell’ordine. Vivono in condizioni drammatiche, estreme, in baracche di fortuna: un tetto di lamiera e quattro pali, coperte usate come pareti, o in tende messe a disposizione dall’associazione dei Medici per i diritti umani (Medu), che da tre anni segue con un presidio sanitario la piccola comunità.
In realtà la vicenda risale ad almeno quattro anni fa, quando alcuni profughi cominciarono a concentrarsi tra la stazione Ostiense e l’Air terminal, un inutile monumento allo spreco di Italia ’90. Sulla loro testa pende ora una nuova ingiunzione di sgombero. Il 23 ottobre, le forze di polizia erano intervenute – su richiesta della proprietà dei suoli – per una nuova operazione di “bonifica ambientale”, prima rinviata al due novembre e poi ancora di una-due settimane, grazie alla mediazione dell’associazione di medici, della municipalità e di numerose associazioni del territorio che, oggi pomeriggio, manifesteranno al Campidoglio per richiedere all’amministrazione una soluzione abitativa alternativa e il rispetto dei diritti elementari dei rifugiati.
200 nel fango. La buca, quando piove, è un impasto di terra e fango, totalmente circondata da un enorme cantiere che muta continuamente la geografia dei luoghi. All’interno, lungo le pareti, si estende una fila di una quarantina di baracche di lamiere e cartoni, tra cumuli di spazzatura e nessun servizio igienico. Nello spiazzo, vicino a una tenda, alcuni volontari insegnano ogni giorno l’italiano a una decina di studenti diligenti. A meno di 500 metri di distanza, vivono in condizioni ancora peggiori, una cinquantina di afgani di etnia hazara: occupano un vagone su un binario morto della Stazione Ostiense o hanno ricavato dei “loculi”, otturando con cartoni e teli di plastica i fori del vicino acquedotto. Per lo più giovani, sono titolari di permessi regolari di soggiorno per motivi umanitari – quasi tutti fuggiti dalla e guerra e con viaggi alle spalle anche di dieci mesi attraverso Iran, Turchia e Grecia. Avrebbero diritto all’assistenza sociale e sanitaria parificata a quella dei cittadini italiani. Almeno così dice la legge.
Altri sono in attesa di permesso, dal cosiddetto “Ufficio Dublino”. Secondo la normativa europea, la richiesta di asilo, dovrebbe essere presentata nel primo Paese dell’Unione europea in cui si viene identificati, in questo caso la Grecia. In realtà, dopo sei mesi, hanno diritto a richiedere asilo in Italia. Inoltre, una recente raccomandazione dell’Ue, recepita prima dal Consiglio di Stato e poi dal Tar Lazio, respinge l’ipotesi di rimandare in Grecia i richiedenti, perché quel Paese non rispetta le norme in materia di asilo, con appena lo 0,5 per cento delle richieste accolte.
La politica della ruspa. L’associazione dei Medici per i diritti umani ha, nei mesi scorsi, più volte segnalato all’assessorato alle Politiche sociali del comune di Roma, la gravità della situazione. “Purtroppo – spiega Alberto Barbieri, medico dell’associazione – le misure adottate sono state di ordine pubblico: improvvisi sgomberi con l’ausilio del bulldozer, che hanno causato spesso la perdita dei pochi e preziosi effetti personali, di coperte, di documentazione sanitaria e dei medicinali in loro possesso”. Poi si lascia scappare una battuta amara: “questa vicenda in tre anni si è spostata di trecento metri di lunghezza e quattro metri di profondità”. La politica del decoro urbano lanciata dall’amministrazione Alemanno sembra aver annichilito ogni forma di accoglienza, con storie che sfiorano il grottesco, come nel caso di alcuni giovani afgani multati perché colpevoli di stazionare nei pressi della stazione ferroviaria o di cercare l’accesso ai bagni pubblici della stazione.
Le storie. I racconti dei rifugiati della buca sono spesso durissimi. Gran parte avevano una casa, una famiglia, una vita in Afghanistan. Poi la guerra al terrore lanciata dall’Occidente ha reso l’Afghanistan un Paese ancora più insicuro. Hamid ( usiamo nomi di fantasia per i rifugiati), 18 anni, ha perso due fratelli e il padre in un bombardamento. La madre ha raccolto i pochi risparmi e lo ha mandato via, per non fargli fare la stessa fine. Rashid osserva: “Cinque o sei anni fa ti era mai capitato di incontrare un afgano? Con la guerra, è diventato un Paese invivibile”. Roallah ha occhi mobili e nerissimi, e ha grande senso dell’umorismo, anche se quello che racconta non fa ridere: “Io ero un semplice fornaio e avevo una moglie e tre figli. Un giorno sono arrivati i Taliban. Imponevano a tutti gli uomini l’arruolamento contro l’occupante americano. Se sei un pashtun devi accettare o ti ammazzano. Sono venuto in Europa, sperando di salvarmi, invece in Inghilterra mi hanno incarcerato”. Poi fa: “Ma se fossi costretto a scappare dal tuo Paese perché rischi la vita, vivresti in queste condizioni?”.
Fonte: Rassegna.it, 05.11.2009