STRANIERI A SCUOLA: IDENTITÀ E DIFFERENZA

14 Nov 2013

di Vincenzo Intermite

Il caso della scuola di Bologna che ha formato una classe costituita solo da alunni immigrati riporta alla ribalta una questione già venuta alla luce all’inizio di quest’anno scolastico con le vicende di Bergamo e Landiona, dove alcune famiglie avevano ritirato i propri figli dalla scuola a causa di un eccessivo numero di bambini stranieri nelle loro classi: la coesistenza nell’istituzione scolastica di alunni di diversa provenienza geografica e, dunque, con diversa lingua e differente cultura. La giustificazione che generalmente si dà a scelte di questo genere sta nella supposizione che l’eterogeneità della classe per livello di preparazione e per competenze linguistiche in particolare, possa frenare il processo di apprendimento, cioè che la presenza di alunni stranieri possa fungere da freno alla formazione degli alunni italiani. Vogliamo prescindere in questa sede dal carattere discriminatorio, evidente non solo nella scelta, ma anche, e forse ancor più, nella giustificazione, nei confronti di alcuni alunni rispetto ad altri: intendiamo invece sfatare tale posizione su un piano pedagogico e didattico, dato che è di scuola che si sta parlando.

Nella Scienza della Logica, il filosofo tedesco Hegel scrive: ‹‹Il principio di identità suona […] tutto è identico a sé: A=A; e, negativamente, A non può essere al tempo stesso A e non A. Questo principio non è una vera legge del pensiero ma semplicemente la legge dell’intelletto astratto››. L’identità intesa in questo senso è, dunque, una pura astrazione: questo perché l’identità non è, ma si fa, non è essere ma divenire, dover essere, non sostanza immobile, ma risultato di un processo, non stasi ma movimento. E che cosa determina questo processo? Che cosa dà impulso a questo movimento? Esattamente il contrario dell’identità: la differenza. L’identità, per Hegel, deve essere intesa ‹‹come identità che include la “differenza›› e implica, pertanto, ‹‹l’identità nella distinzione e la distinzione nell’identità››.

Questa dottrina, che, come tante teorie filosofiche può apparire in prima approssimazione astrusa e controintuitiva, è invece estremamente semplice e, sarei tentato di dire, persino ovvia. Dice semplicemente che se sono ciò che sono è perché vi è stato qualcosa di diverso che ha sollecitato le mie reazioni, modificando il mio status e che senza questo incontro non sarei che un replicante di me stesso, ostaggio di una sorta di coazione a ripetere che tutto può essere ma non certo identità.

Tutto questo è esattamente quello che si dice “insegnamento”: la modificazione perenne e irreversibile della personalità attraverso strategie di intervento da parte di individui adulti su individui giovani con la finalità di orientare il loro inserimento autonomo e consapevole entro la società in cui vivono. Tale intervento deve avere quanto meno possibile i tratti della coazione e dell’imposizione, in una parola dell’esteriorità, in quanto quegli interventi devono maieuticamante innestarsi sulle intrinseche capacità di ognuno, devono far leva sul corredo di potenzialità di cui ognuno è portatore, devono trasformare in risorse le varie e multiformi inclinazioni che vanno a costituire il temperamento di ciascuno, per edificarne il carattere, devono utilizzare al meglio le conoscenze e competenze pregresse di ognuno per accrescere e potenziare le conoscenze e competenze di tutti.

Ciò implica però il positivo riconoscimento della diversità di ognuno, la piena consapevolezza che ogni individuo è differente da ogni altro per temperamento, estrazione sociale, situazione economica, familiare e personale, cultura e stile di vita, provenienza: da qui la necessità di quel principio che va sotto il nome di insegnamento individualizzato, che si differenzia non solo da quello uniforme, ma anche da quello individuale: questi ultimi implicano omogeneità di comportamenti, il primo nei confronti di allievi singolarmente presi, il secondo nei confronti di un gruppo, ma sempre di omogeneità si tratta; l’insegnamento individualizzato è quello invece che, pur nella logica del gruppo-classe e dunque della interrelazione e del reciproco scambio di informazione e formazione tra alunni, prevede, da parte del docente strategie diversificate a seconda delle differenti situazioni.

Oggi, alle tradizionali differenze tra gli alunni di una classe, si aggiungono quelle dovute alla diversa provenienza geografica: ciò non cambia le cose, se non su un piano meramente quantitativo: resta il fatto che la formazione dei bambini, di tutti i bambini, italiani e non, si attua e non può che attuarsi, entro uno spirito comunitario nel quale, da una parte il docente interviene su ognuno rispettandone le peculiarità, dall’altra gli allievi, anche in modo inconsapevole, attraverso i loro comportamenti, i loro giochi, la loro reciproca comunicazione, i linguaggi che usano nei loro scambi verbali partecipano attivamente alla formazione di ognuno, trasformando le inevitabili differenze in risorse per la loro formazione. Così una classe nella quale siano presenti alunni stranieri è una classe fortunata, non solo per questi alunni che trovano accoglienza e si avvalgono dei contributi dei loro compagni per la loro preparazione anche, ma non solo, linguistica, ma pure per quelli italiani che faranno tesoro delle esperienze, della lingua, della cultura, delle tradizioni e delle credenze del loro compagno straniero per potenziare la loro consapevolezza di uomini e cittadini.

Tutto ciò è, però, possibile solo se ci si libera una volta per tutte dalla diffidenza per la diversità e l’eterogeneità, dalla tendenza alla discriminazione mascherata con argomentazioni pseudodidattiche, dalla acritica fedeltà ad una omogeneità che non può dare altro che putrescente palude e ci si sforza seriamente e con determinazione di attuare, finalmente, l’identità nella distinzione e la distinzione nell’identità.

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